Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schIavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.

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"SEPOLTA VIVA - LA VESTALE " - Marco il Tribuno

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martedì 22 luglio 2014

ARRUNZIA e TREBONIO






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Marco e Lucio entrarono nella bettola.
  “Della buona biada per loro.” disse ancora il tribuno.
“La migliore, tribuno.” rispose l’oste.
Se l’esterno della locanda era tetro, l’interno, invece, riservava sorprese. Era spaziosa e ben illuminata, disseminata di tavole e panche e con una scala di legno che portava a quelli che dovevano essere i caenacula, al piano di sopra. Di fronte alla porta d’entrata, contro la parete di fondo, era accostato un lungo bancone sul quale poggiavano coppe, tazze e vassoi pieni o vuoti.
C’era una donna seduta dietro quel banco e guardava tutti con aria sorniona. Non più giovane, grassa e voluminosa, sedeva su uno sgabello troppo stretto da cui  debordava abbondantemente. Squadrò anche i due nuovi arrivati da capo a piedi, prima di porgere loro il suo saluto.
Sulla destra ardeva un camino che oltre a rischiarare serviva per arrostire salsicce e un cosciotto di capretto le cui carni sfrigolanti inondavano l’ambiente di un delizioso profumino; altra luce arrivava da torce appese al muro e da una lampada che veniva giù dal soffitto. Lungo la parete sinistra correvano due file di mensole piene di vasellame; nell’angolo, una nicchia custodiva i Lari; nell’angolo opposto, in una seconda nicchia, avevano preso posto alcuni oggetti che Marco riconobbe  essere appartenuti a Nerone: un dono di Cesare custodito come una reliquia!
Marco e Lucio sedettero al tavolo vicino alle scale e Lucio esordì:
“E’ vero che qui si serve dell’ottimo cinghiale alla salsa di pinoli.”
L’oste si avvicinò al tavolo. La sua faccia larga, rubiconda e piatta si distese in uno sfolgorante sorriso. Grasso e massiccio, tanto da doversi girare di lato per circolare tra i tavoli, era una  montagna di carne portata con allegra disinvoltura. Odorava di vino, olio e sudore.
“E’ quello che sto aspettando da un pezzo anch’io.- esordì qualcuno seduto a un tavolo - Forse quel cinghiale non è stato ancora cacciato!... Salute, tribuno Marco Valerio e anche a te che non conosco, legionario!”
Marco si voltò a guardarlo.
Labbra grosse, volto rubicondo, occhio appannato, indice di un trasporto per il Falerno, l’uomo aveva ancora il braccio levato in atto di saluto.
“Salute a te, Lacone!” rispose Marco, intanto che la ostessa, lasciato il bancone si avvicinava premurosa.
“La buona cucina vuole il suo tempo! – disse la donna - Per gustare il “cinghiale alla salsa di pinoli” di Arrunzia Claudia non bisogna avere premura. Perciò, torna ai tuoi dadi e aspetta.”
Arrunzia Claudia. La chiamavano così, per via del suo passo claudicante, ma avrebbero potuto bene affibbiarle anche il soprannome di Arrunzia Crassa, tanto era grossa e massiccia.
Il suo aspetto richiamava più quello di un atleta che di una donna; più simile a Ercole che a Diana. Ad azzopparla era stata l’incornata di un toro nella villa rustica di un patrizio, dove era stata condotta schiava dalla Siria e dove, proprio per quel suo aspetto insolito per una donna, era stata respinta e dileggiata. Perfino al mercato degli schiavi, dove il padrone aveva finito per metterla in vendita, era stata disdegnata quasi da tutti.
Quasi da tutti, ma non da tutti. Non da Metrobio, che aveva visto in quell’Ercole al femminile, dalle spalle quadrate, le braccia muscolose, lo sguardo mansueto come quello di un bove, un ottimo investimento per sé e per l’attività che intendeva aprire.
Metrobio era di quelli che non disdegnavano il lavoro e  a Roma quella dell’oste era una delle attività più remunerative per chi avesse avuto voglia di lavorare e fosse a conoscenza di qualche buona ricetta. Possibilmente esotica!
Arrunzia possedeva quelle qualità e per Metrobio acquistarla era stato un ottimo affare. Affrancarla e poi  sposarla, era stato un affare ancora maggiore: Claudia conosceva  certe ricette segrete e afrodisiache, tali da richiamare avventori di ogni sesso ed età, come il latte appena munto attrae le mosche.
Claudia si era attaccata al marito-padrone con la dedizione assoluta di un cane fedele, ma, per ragioni imperscrutabili, anche l’oste aveva finito per affezionarsi a lei con la stessa dedizione.  Così, senza nemmeno rendersene conto, Metrobio aveva finito per ritrovarsi appese al proprio collo quelle stesse catene che aveva messo al collo di lei, fino al ribaltamento totale della situazione, che vedeva Arrunzia padrona di Metrobio. Una padrona affettuosa e garbata, per la verità, tanto che la gente cominciò a chiamarli Bauci e Filemone, come i due della leggenda del Diluvio, risparmiati da  Giove e trasformati  in tiglio e  quercia.
La porta che si apriva sotto spinta vigorosa e la figura di Fabio che  faceva il suo ingresso seguito dal suo optio Ottavio, riassorbì l’attenzione di Marco, che si alzò per andare incontro al suo centurione; anche l’oste, grondante sudore, si girò verso l’uscio.
“Benvenuto, centurione. - lo salutò scorgendogli tra le mani la vitis, l’insegna del grado- Giove ti tenga sempre in buona salute!”
“A te invece, oste, - rispose con un sorriso Fabio - non occorre augurare miglior salute. Più grasso di come sei, scoppieresti.”
Risero tutti, anche Metrobio, cui la risata gorgogliava  allegra e sonora nella pancia come in un tino di vino in fermentazione.
“Del buon vino, oste.”  interloquì Ottavio alle spalle di Fabio.
I due si accostarono al tavolo di Marco, dove presero posto.
“Vi servo subito!... A voi, tribuni e centurioni, il vino migliore della cantina di questa ganea... Ehi!...Ehi, Ventidia! – urlò l’oste in direzione della schiavetta che seguiva come un’ombra la sua padrona - Piccola infingarda, corri in cantina e prendi quel vecchio Aglianico. Bada a non combinare pasticci e torna subito!”
Ventidia si allontanò verso la porticina del sottoscala.
Ventidia era la schiava trace appena acquistata. Aveva venti anni, ma ne mostrava di meno; piccola e grassottella, pelle bianca e rosea, volto paffuto come una pagnotta appena sfornata, capelli biondi e raccolti, era molto graziosa e si muoveva per la stanza  volenterosa, vezzeggiata e richiamata da tutti. E lei rispondeva a tutti con un sorriso radioso.
“E’ un vino che resuscita i morti, quello che voglio servirvi - l’oste  tornò da Marco e i suoi amici con quattro coppe linde e lucenti -.. se quella piccola sfaticata non tarda ancora… ma l’attesa, vedrete...”
(continua)

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