Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schIavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.

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"SEPOLTA VIVA - LA VESTALE " - Marco il Tribuno

Le tenebre avevano quasi avvolto ogni cosa, complici di delitti e malefatte, quando la biga raggiunse la sua destinazione;  l’Agger   Sceler...

lunedì 5 ottobre 2015

"IDILLIO" da "LA DECIMA LEGIONE - Marco il Tribuno"




Ottavia si voltò. Con la mano destra ricacciò sotto il velo la ciocca ribelle. Lo sguardo cercò quello di lui. Timidamente.  Gli sorrise. Con le labbra sorrisero anche i begli occhi nocciola. Sorrisero pieni di splendore e silenziosi desideri e quel sorriso raggiunse lo spirito di lui, emozionandolo e sconvolgendolo.
Livilla li osservava da lontano. Li scrutava. Il vederli guardarsi in quel modo la esasperava: Ottavia era una Vestale, pensava, nessun uomo poteva sfiorarla mai. Nemmeno con un pensiero.
“Sembrano amici. - diceva a se stessa -  Amici di vecchia data.”
Nessuno aveva nulla da ridire per la disinvoltura di lui e la sorridente fermezza di lei. Nessuno.  Perchè solo lei “vedeva” quello che sfuggiva agli altri? Possibile, si chiedeva, che agli altri sfuggisse quello che  appariva chiaro come un cielo stellato? Chiaro che Ottavia e Fabio erano attratti irresistibilmente l’uno verso l’altra come il miele attira l’ape.   
Turbata e ferita,  mai, però, avrebbe mostrato la sua sofferenza all’antico compagno. 
Un’ancella portò bevande fresche; Fabio ne prese una e la offrì a Livilla; lei la tese ad Ottavia e Fabio le fece una carezza sulla guancia.  Come faceva un tempo.
Una carezza, però, che la irritò.
Ma non era irritata con lui, bensì con se stessa.  Distolse lo sguardo dai due e gettò un’occhiata di traverso in direzione della maschera del Bucco, che continuava con i suoi lazzi irriverenti.
Sì, era proprio irritata.

Continuò a girare d’intorno lo sguardo fintamente distratto e finì per tuffarsi nelle pupille ardenti di qualcuno che pareva essere in attesa proprio del suo sguardo e di quell’attimo… l’attimo cantato dai poeti, in cui due esseri che non si conoscono si incontrano per la prima volta e i  cui sguardi, scontrandosi, accendono fulmini e saette.  Lo sguardo che fa scoccare  la scintilla.
Era lo sguardo di Milos il gladiatore, alle spalle di Fabio,  che la contemplava già da qualche tempo, immobile in mezzo al giardino, alto e possente: il più alto di tutti; perfino Seilace, il beniamino delle arene, era meno alto di lui.
Livilla non lo conosceva. Non lo aveva mai incontrato nè visto prima, neppure da lontano. Suo padre, il siriano Akab non le aveva mai permesso di mettere piede in un circo o un’arena.
Distolse immediatamente lo sguardo. Non voleva incrociare nuovamente quegli occhi, occhi azzurri e metallici, carichi di bagliori, che procuravano sensazioni così nuove e strane, tali da minacciare il sentimento per Fabio appena sbocciato in lei. Come osava guardarla in quel modo? E perché ne era così turbata e disturbata? Anche lusingata, in verità!
L’attimo fugace durante il quale aveva incrociato con lui gli occhi, le aveva rivelato un viso decisamente straordinario e dal fascino irresistibile.  Non somigliava a Fabio.
“Posso accompagnarti alla tua casa quando questa allegra compagnia si sarà sciolta?”
Livilla si voltò; Milos era di fronte a lei, alto, bello, irresistibile e quella giovanile sfrontatezza nello sguardo.
Diversamente da come Fabio guardava Ottavia.
Milos le tese una coppa senza smettere di fissarla; anche lei  lo fissava in silenzio, come incatenata dal fascino ombroso di lui. Osannato idolatrato da donne di ogni età ed estrazione sociale, lo splendido atleta non era certo abituato alla ritrosia o  al rifiuto e tanto meno ad esser messo al confronto con un altro uomo.
“Allora, Egeria, vuoi continuare a fissarmi o dirmi il tuo nome?”
“Mi chiamo Livilla.”
“Bene, Livilla. Brindiamo a noi stessi o al nuovo Cesare?... E naturalmente al nostro ospite!” aggiunse levando il calice in direzione di Marco Valerio che stava sopraggiungendo.
“Avete     fatto amicizia, voi due, vedo. - sorrise il padrone di casa, sollevando anch’egli la coppa - Attenta al nostro grande atleta, piccola Livilla. Lui fa strage di avversari e di cuori femminili!”
“Ah.ah.ah!... - rise il bel gladiatore - E’ lei, la dolce, piccola Egeria, che ha trafitto il cuore di Milos con i luminosi strali scuri!” disse  galantemente il trace.
Livilla prese la coppa e sgranò gli occhi dallo stupore: Milos il gladiatore? Lui era Milos, “suspirium puellarum”, come lo chiamavano tutti? Un poco assomigliava a Fabio. Sì, a guardarlo meglio, un poco assomigliava a Fabio... Ma no! Non era vero!  Stesso  spalle, braccia solide… Tutta qui la loro rassomiglianza.
La ragazza accostò la coppa alle labbra, sorseggiò piano il vino, dolce ed aromatizzato e intanto pensava che mai aveva visto un volto così straordinariamente avvenente. Forse un poco fanciullesco nel profilo e nella espressione.
Continuò a sorseggiare. Vino bianco e spumoso, spiegava il tribuno, proveniente dai possedimenti ostiensi e adatto al palato di una fanciulla. In verità, quel dolce “vinello” dall’intenso profumo e con note di frutta fresca e sensazioni di agrumi, come Marco continuava ad insistere, benché annacquato, era un po’ traditore. Soprattutto con chi non era abituato ai vigneti laziali. Era dolce e scivolava in gola piacevole, ma poi tornava su, violento come un fulmine, attraverso le vene delle braccia e delle gambe e le giunture delle ginocchia e dei gomiti. Un vinello davvero traditore, che donava ebbrezza ed eccitato stordimento.
“Sei molto gentile. - disse - Ma perchè non stai fermo e continui a  saltellarmi intorno? E che cos’è questo fracasso? – continuò, barcollando lievemente - La terra sta di nuovo tremando?”
“Ah, ah,ah!... - rise Milos - Non è la terra che si sta muovendo, bella Egeria! E’ il vino che  muove te... E quello che senti non è il tuono di un terremoto, ma il passo dei soldati spagnoli che pattugliano la città.”
“E’... è successo qualcosa?” farfugliò la figlia di Akab, appoggiandosi al suo braccio.
“Non ancora, ma pare proprio che qualcosa debba accadere!”
(continua)

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lunedì 28 settembre 2015

commento di ROSANNA GUERRINI su FACEBOOK / Il Salotto delle Muse


Ho appena finito di leggere il libro La decima legione di Maria Pace, il primo volume. Un libro interessantissimo sia per la trama , avvincente, che tiene fino all'ultimo col fiato sospeso, sia per la caratterizzazione dei personaggi,approfondita e varia e infine per la parte storica, la descrizione degli usi, della vita,di tanti particolari che non conoscevo e che arricchiscono il romanzo. Scritto, infine, molto ben

domenica 6 settembre 2015

COMMENTO di ROBERTO TEDESCO





ROBERTO TEDESCO Romanzi " che passione!"

COMMENTO

Ho letto il primo volume dell’opera di Maria Pace “La decima legione”. Dopo aver chiuso la quarta di copertina, mi sono sentito subito più arricchito, avendo assaporato ogni parola, ogni descrizione, di quella parte di storia romana che ho sempre amato. Inoltre, lo stile di scrittura dell’autrice, ricco di lemmi in latino, mi ha fatto calare nella vita di quel tempo, così anticipatrice degli usi e costumi di quella di oggi. Confesso di essermi servito del computer per tradurre le numerose parole e frasi in latino meno note. Una lettura veramente interessante, che mi ha riportato alla memoria il film kolossal del 1951 “Quo vadis?” diretto da Mervyn LeRoy, in cui Robert Taylor interpretò la parte del tribuno Marco Vinicio (o Marco Valerio Flavio) e, Debora Kerr, quella di Licia (o Lucilla), la liberta convertita al cristianesimo. La trasposizione cinematografica, comunque, non corrisponde in tutto al racconto di Maria Pace e ci sono delle discrepanze anche con l’omonimo romanzo storico del premio Nobel per la letteratura (1905) Henryk Sienkiewicz, da cui è stato tratto il film. Infatti, pare evidente che la sceneggiatura del film sia stata adattata alle esigenze cinematografiche del pubblico di allora, appassionato di ricostruzioni storiche spettacolari. La scrittrice, invece, fa rivivere quell’epoca nella sua autentica dimensione storica, descrivendo con lucidità gli scenari in cui nascevano gli intrighi e le cospirazioni politiche, la crudeltà degli uomini asserviti al potere dell’imperatore e le persecuzioni ai primi cristiani del sanguinario Nerone. In questo contesto s’inserisce il tormentato amore di Marco Valerio per Lucilla Pisone, che viene coronato con il loro matrimonio dopo tante peripezie.

giovedì 2 luglio 2015

LE FOGNE di ROMA


La geografia dei sette Colli di Roma, nati dalla eruzione degli antichi vulcani laziali, complessa e ondulata, nascondeva tra le pieghe delle colline e nel fondo delle valli coperte di edifici, anfratti e fossati. La grande città saliva e scendeva su un terreno che le convulsioni e i vulcani avevano sconvolto e mutato. La natura ricca e generosa aveva poi rivestito quel suolo con oliveti, vigneti, boschi di querce e cipressi e l’uomo l’aveva ornata con templi e palazzi.
Sotto di sé, quella città unica al mondo, nascondeva un’altra città: strade, piazze, incroci e rigagnoli di melma fangosa e acque putride. Mentre in superficie piogge e temporali, trasformavano i marciapiedi in acquitrini, là sotto era fango permanente.
C’era, poi, la selva di condotte, cisterne e tubi per la distribuzione dell’acqua potabile che alimentava terme, fontane, palazzi e case, una infinita rete di canali che conduceva in una sola grande fogna: la Cloaca Massima, che a sua volta si gettava nel Tevere, convogliando acque e immondizie.
Il “ventre ingordo” di Roma, la chiamava Lucilio. Diceva che quel “ventre”  raccoglieva e flautolava nel Tevere tutta la ricchezza della città.
“Ogni singulto di quelle fogne è un rutto dell’Urbe grassa e sazia!” ripeteva tutte le volte che andava ad inciampare in qualche mucchietto di rifiuti dimenticato in un angolo di strada, non mancando di far notare  i fetidi scoli melmosi sotto le cunette stradali.
Una rete fognaria di prim’ordine, ampliata e migliorata nei secoli con opere di canalizzazione, come nel punto in cui la cloaca entrava nella zona del Foro, dove era stato eretto un sacello a Venere Cloacina.  Iniziava dalla Suburra, attraversava l’Argileto, il Foro, il Velabro e il Boario e si scaricava nel Tevere, nei pressi del Ponte Emilio.

Il gruppo si infilò in una delle tante condotte. Qui l’aria era un pò più respirabile, l’ambiente ordinato. Segno di frequente manutenzione. L’acqua scorreva in un canale di pietra, largo più di tre metri, affiancato da due corridoi che congiungevano la volta a semicerchio; basse nicchie ne interrompevano qua e là il percorso.
Proseguirono in silenzio; i sandali battevano sulla selce producendo un rumore che l’eco trasportava dietro e si lasciava alle spalle.



Due ombre sbucarono improvvise da  una di quelle nicchie parandosi davanti al gruppo. In una di loro Lucilla riconobbe la formidabile figura del principe dei Siluri.
Senza nemmeno una parola, Seilace porse ai due soldati un tintinnante sacchetto; il pretoriano lo afferrò, fece cenno al compagno e questi pose a terra, con molta delicatezza, il fardello che portava in spalle, poi si voltò per allontanarsi.
“Che cos’è questo?” Seilace indicò la coperta e il suo contenuto. Lucilla si chinò a scoprire il bel volto di Keriat, gli occhi chiusi .
“L’hanno violentata!” disse semplicemente, con voce incolore.
“Porci!” sbottò l’uomo alle spalle di Seilace.
Lucilla sollevò lo sguardo su di lui



. Ricordò di averlo visto qualche volta in compagnia di Marco.
Si chiamava Tiberio Crasso ed era un censore, un curatores acquarium, uno di quelli che  si occupavano della amministrazione di fontane, acquedotti, cisterne, cloache; uno che doveva conoscere assai bene quei sotterranei.
Raccolta la rabbia, il valente gladiatore si chinò sul corpo della piccola e lo sollevò; l’acqua correva nel canale. Lucilla la guardava scivolar via, poi, d’improvviso, qualcosa venne a galleggiare in superficie: un mantello color dattero, una lunga capigliatura castana. Alle spalle della ragazza, Ottavia ebbe una esclamazione soffocata.
“I condannati. - disse Seilace - I corpi stanno andando verso le acque del fiume.”
“Non stiamo andando verso il Tevere. - spiegò il censore; avevano fatto ripulire le fogne neanche dieci mesi prima, ma gli ultimi sanguinosi eventi le avevano nuovamente riempite di cadaveri - Forse quell’infelice era ancora viva quando l’hanno scaricata nella fogna. Forse prima di ucciderla l’hanno condotta qui per...” s’interruppe. Ma avevano capito tutti.
“L’Ade non sarà più tetro e orrendo!” pensò Lucilla con un brivido.



Proseguirono. A passo lento e non senza affanno. Svoltarono l’angolo e sbucarono in un secondo corridoio più largo e più basso di almeno mezza spanna. Il percorso andò facendosi sempre più difficoltoso. Le acque dell’ultima pioggia non erano defluite completamente e formavano un piccolo torrente che trasportava di tutto.
Dal rumore di zoccoli e cigolii di  ruote che proveniva da sopra le loro teste, capirono di aver lasciato la zona del Foro e di essere entrati nel Velabro.
Ombre inquiete cominciarono a comparire e scomparire intorno a loro: fantasmi frequentatori di quel putridume.  Stragi, rivolte, fughe: tutto era passato attraverso quelle fogne. Tutto trovava rifugio là sotto: la lotta armata, la coscienza civile, la ribellione di gruppo, la rabbia singola.
Le fogne erano lo specchio della città e l’immondizia era la personalità dei suoi abitanti: una veste ancora intatta raccontava i capricci della ricchezza, un telo a brandelli, invece, la disperazione della miseria.  Abbondanti avanzi rivelavano luculliane cene e ossa rosicchiate denunciavano fame non sazia.
Nessuno si stupì dell’improvvisa apparizione partorita quasi dal nulla.
“Ehi! Piccolo topo di fogna! Hai trovato qualcosa da rosicchiare qua sotto?” disse ridendo il censore.
“Quello che manca dalla tua borsa, signore!... Con tutto rispetto!” fu la pronta risposta.
“Aquilinus!” esclamarono insieme tutti gli altri.

Era Aquilinus che, dal Velabro al Campo Marzio, dal Celio al Palatino, tutti conoscevano bene. Aquilinus: modello del rifugiato della cloaca, del frequentatore dei fornici, dei bassifondi della città. Aquilinus, sempre  più pallido, sempre più alto dentro la nuova tunica laticlaviaavuta o rubata a chissà chi. Un piccolo fantasma nascosto entro vesti per adulti. Quasi un gioco, quel nascondersi in una veste da grandi. Non una tunica praetexta per fanciulli, dismessa da qualche piccolo patrizio; non calzari infantili o piedi nudi come tutti gli altri piccoli miserabili vestiti dalla pietà della gente, ma caligae. Caligae militari ai  piccoli piedi arrossati dal freddo; grosse come barche. Anche queste reperite in chissà quale modo. Quella piccola orgogliosa canaglia non si sarebbe mai fatto vestire dalla pietà di alcuno. Le cose, lui, preferiva prendersele.
Puntò il piccolo indice sulla figura del valente gladiatore e sulla figuretta nella posa dell’ abbandono che portava sulle braccia.
“E’ Keriat? - domandò - Sta dormendo?”
Lucilla si girò a guardarlo.
“Sì! - rispose con voce incolore - Dorme!”
“E come state, tu e la nobile vestale Ottavia? – tornò a domandare il piccolo - Vi vedo in ottima salute e me ne rallegro!... Ma ora muoviamoci da qui. Seguitemi!” continuò assumendo un tono di autorità.
“Siamo già oltre il Foro. - disse Tiberio alle sue spalle -  Riemergeremo al prossimo svincolo tra la Via Vetrari e La Via...”
Ma Aquilinus scuoteva il capo.
“Consiglierei di proseguire.” suggerì; il censore lo squadrò da capo a piedi.
“... e la Via Nova.  – continuò il censore - Potremo riemergere non visti al mercato tra le bancarelle.”
“Ci troviamo proprio sotto la Basilica Giulia, signore. - replicò il piccolo - Non passeremmo inosservati ai tanti passanti e sfaccendati che stazionano di sopra. Uscire all’aperto, richiamerebbe l’attenzione dei soldati.”

Aveva ragione. Il piccolo signore dei Fornici di Roma conosceva perfettamente i sotterranei della sua città. L’intreccio di quelle arterie erano simili agli svincoli, anse, strade, viuzze, in superficie, che lui continuava a ripetere di conoscere come la sua borsa appesa al fianco e in cui si muoveva con passo fermo e sicuro.
“Per i Calzari Alati di Mercurio! - esclamò con enfasi - Protettore mio e di tutti i miei simili! Come credi, signore, che io riesca a prendermi gioco di tutte le guardie… comprese le tue? - aggiunse con irresistibile, vivace ironia -  Seguitemi!”
Con un cenno della piccola mano nera di fumo li invitò a seguirlo. Alla prima articolazione si girò verso Crasso.
I lavori di manutenzione in quel settore erano quasi terminati; gli ultimi mucchi di detriti e immondizia, ai lati degli scoli, parevano in attesa di smaltimento, i corridoi erano puliti, solo qualche topo grosso e ben pasciuto, che correva veloce.
La fogna era fredda laggiù, ma pulita; l’acqua nello scolo pareva scorrere senza grossi intoppi.
“Siamo sotto il Foro Boario.” Aquilinus si voltò come a chiedere conferma al censore.
“Sotto l’Arco di Giano! - precisò questi - Nel ramo antico della cloaca. - indicò la volta - Qui  un tempo la fogna correva a cielo aperto. La rete, come si vede, tende a risalire verso le pendici del Palatino.”
“Non c’è pericolo di perdersi, quaggiù?” la voce di Ottavia, bassa e un po’ roca, costrinse il censore a volgere il capo. Si faticava a respirare là sotto.
“Per chi non la conosce, domina, questa fognatura è più insidiosa del labirinto di Creta. - rispose - Le possibilità di smarrirsi sono molte. Qui dove ci troviamo, convergono numerosi sbocchi... in numero più elevato che nel resto della città e lo smaltimento, come si vede, è un dedalo di canali che bisogna conoscere uno per uno... Ma io li conosco, domina!” la rassicurò, tendendo una mano in direzione del corridoio.
Anche Aquilinus mostrava di possedere la stessa conoscenza e li  precedeva.

“Questo corridoio - disse - conduce alle tabernae del Circo Massimo.”

(CONTINUA)

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LA VIOLENZA


.................
Lo sguardo di Lucilla seguì terrorizzato il pretoriano che richiudeva la porta alle spalle della donna e si faceva avanti. Seguì con raccapriccio il sorriso da ebete che gli istupidiva il volto, il lampo inequivocabile che gli incendiava lo sguardo mentre con gesti eccitati si toglieva l’elmo.
“La voglio prima per me. - udì la voce del compagno altrettanto eccitata - Dopo potrai farne ciò che ti aggrada!”
“Non mi serve la ragazza. – rispose l’altro, freddo, gelido, composto – E’ troppo vecchia per me. Io voglio la piccolina!”
”No! - Lucilla scosse il capo inorridita; la pietra le tremò sotto i piedi; il soffitto parve venirle addosso - E’ ancora una bambina…” riuscì a dire con voce soffocata.
Quello però l’aveva già raggiunta e le strappava Keriat dalle braccia; elmi, spade e corazze giacevano sparsi per terra.
Muta di terrore, Keriat barcollò; l’uomo la sostenne. Un gesto quasi affettuoso. Paterno.
“Vieni, piccolina. - diceva - Dopo ti farò un bel regalo. Togliamo questi vestiti. Ti scalderò io se avrai freddo...”
Le tolse i vestiti con gesti pacati, amorevoli; le accarezzò i capelli, le spalle, i piccoli seni in sboccio.
“Lasciala andare. E’ ancora una bambina. Lasciala...” urlò Lucilla lanciandosi in avanti, ma una mano l’agguantò. Forte come una morsa. Una stretta implacabile. Sentì sulla faccia l’alito pesante dell’uomo, il suo respiro affannoso.  Non provò neppure a svincolarsi: un urto e si trovò distesa per terra e l’uomo sopra di lei.
Era pesante.
Sentiva il suo largo torace schiacciarla e impedirle di respirare. Tentò, ma inutilmente, di liberarsene, poi il  sapore delle sue labbra bavose sul collo, sulle guancia e sulle labbra l’annegò di disgusto. 
Aprì la bocca e affondò i denti in quel labbro.
Il pretoriano dette in un grido di dolore, ritrasse il capo e sollevò una mano, che si abbattè con inaudita violenza sulla sua bocca.
“Brutta cagna rognosa! - lo udì imprecare - Ti insegnerò io a mordere!”
Lucilla sentì il sangue scorrerle lungo le labbra e il mento e nuovamente la bocca e la lingua di quell’essere immondo percorrerla e insozzarla di bava e saliva mischiate al proprio sangue; l’urlo di Keriat le lacerò le orecchie e il cuore e  un’angoscia disperata le  afferrò lo spirito.
Poi, d’improvviso, uno strazio fisico!
Le impediva fin’anche di respirare, come se una lama cercasse di affondare nella carne. Capì che l’uomo stava penetrando dentro di lei.
Spalancò gli occhi atterrita. 
Dal profondo della mente partì un puntino doloroso. Una ferita che espandendosi scatenava nel cervello un ribollire tumultuoso di paure e travagli che il cervello non era capace di contenere. Finalmente l’urlo. Un urlo che era retaggio di ataviche paure represse per generazione e che le sconvolsero la mente.
Poi, di colpo, un volto di donna, dolce e sorridente, prese forma in quell’etra maligno e nemico.
“Mamma!...” urlò.
Era la prima volta che sua madre “tornava” da quando era morta, quasi quattro anni prima. Scosse il capo e la “visione” s’appannò; lentamente si adombrò, fino a a diventare luce trasparente. Svenne! Aveva raggiunto quel confine oltre cui la misericordia divina non permette di andare e le risorse  fisiche esauriscono.
Non si accorse della porta che si apriva e di qualcuno che sollevava di peso lo stupratore scaraventandolo di lato. Quando rinvenne, in una bruma di paure e vergogne, del soccorritore sentì solo la voce, poichè continuava a tenere gli occhi chiusi in un silenzio profondo rotto solo da respiri affannosi.
Non sentiva più neppur le grida di Keriat.
Fu proprio questo a scaraventarla fuori della bruma delle proprie angosce: quel silenzio era più terribile delle urla.
“Cosa stai facendo, animale?” sentiva la voce del soccorritore; una voce contrariata, ma sconosciuta.
“Di cosa ti impicci? – quella dello stupratore - Calvia Crispinilla in persona ha affidato costei alle mie cure!”
“Imbecille! Quando Cesare lo saprà ti farà scorticare vivo!”
“Per tutti gli Dei!... Perché?”
“Perché costei è la moglie del tribuno Marco Valerio Flavio, animale! Cesare vuole servirsene per trattare con lui e il generale, Vespasiano, il Legato della Giudea. Finirai sotto la scure del boia!”
“Maledizione!” imprecò lo stupratore tentando di darsi contegno. Intanto guardava la sua vittima e faceva l’atto di tirarla su dal pavimento. Con uno spintone il centurione lo ricacciò in fondo allo stanzone, poi si voltò verso Lucilla:
“Cosa ti ha fatto questo animale, domina. Ha abusato di te? - la voce era compassionevole e gentile, ma Lucilla non rispose: era umiliante dover spiegare. L’altro insisté - Hai capito cosa ti ho chiesto, domina? Questo animale ha abusato di te?”
Lucilla continuava a tacere e per non subire il suo sguardo abbassò il capo
Il primo irrompere della vergogna al cervello fu un vortice impetuoso che andò dilagando fino nelle più remote e nascoste pieghe dell’anino Come una folgore l’aggredì al cuore, coinvolgendo nervi, ossa, pelle: la voce e lo sguardo del centurione le davano la misura dell’offesa subita.
L’assalì il bisogno di nascondere l’offesa e la vergogna, il bisogno di nascondersi in un luogo buio, il bisogno di nascondersi a quell’uomo, che pure l’aveva sottratta alla violenza di un bruto.
L’assalì il bisogno di morire.
Ma non poteva fare nulla di tutto ciò e non trovò altro rimedio che conficcarsi le unghia nella carne, ma un gemito la strappò a quell’angoscioso smarrimento: Keriat.
Giaceva in un angolo, svenuta, seminuda e sanguinante. Dimenticò se stessa; si trascinò per terra e la raggiunse. Si chinò sopra di lei. La chiamò:
“Keriat!”
Anche il centurione si accostò alla piccola; anche lui si chinò. La contemplò in silenzio.
“Che scempio! - esclamò con accento nauseato, poi - Devi venire con me, domina. Cesare vuole parlare con te.” disse.
(CONTINUA)

brano tratto da  "LA DECIMA LEGIONE - Sulla via per Gerusalemme"

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LA DECIMA LEGIONE - Milos il Gladiatore





Correva l’anno 882-883. il 68-69 dell’era cristiana: l’anno più lungo di tutta la storia dell’Antica Roma, che vide la cruenta fine di quattro imperatori.
Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schiavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.
Fu anche l’anno in cui il Cristianesimo, approdato a Roma assieme a molti altri culti orientali, metteva i primi germogli, pur tra sospetti, speranze e persecuzioni.
Intrappolati nelle maglie delle tante manovre civili, politiche e militari, si trovarono anche il tribuno Marco Valerio e il centurione Fabio, il filosofo Lucilio e il  pedagogo Cleonte, i gladiatori Milos e Seilace e il taverniere Trebonio, la vestale Ottavia e la prigioniera di guerra Tracia, il piccolo fuorilegge Aquilinus e la giovane ereditiera Livilla, l’ostaggio Lucilla e tanti altri ancora.
Uno spaccato di vita nella Roma d’epoca imperiale 

giovedì 23 aprile 2015

L'INFANZIA NEGATA



 Quel colosso, o più esattamente, il possente torace, era diventato la nuova tana di Aquilinus. L'aveva scoperta quasi per caso e subito adottata. C'era un'apertura sul retro del polpaccio della gamba sinistra: stretta e bassa, ma sufficiente a farvi passare un uomo.
Aveva visto un giorno un operaio infilarsi e scomparire al suo interno e da quel momento, quel simbolo di potere e grandezza imperiale, era diventato la sua nuova "casa".

Inaspettata utilità della megalomania di un Cesare!
Ne aveva tante altre di tane sparse per la città. Tutte sotterranee, in fornici, cloache e cisterne, ma quella, che si elevava verso il cielo, lo appagava ed inorgogliva più di ogni altra.
Per il piccolo derelitto quella non era solamente una casa, non era solo il posto ove riporre refurtiva, ripararsi dal freddo, mangiare, dormire e non era neppure il luogo dove smaltire malinconie, sbronze occasionali e qualche lacrimuccia traditrice: quella era la rivincita contro la società che lo aveva ripudiato. Era la conquista. Era l'occupazione: scacciato ed emarginato, rifiutato e allontanato, egli si appropriava della cosa pubblica.
A Cesare, quell'ammasso armonioso di travi e legno ricoperto da lastroni di bronzo, serviva per realizzare un'idea di grandiosità e immortalità,, ma per il piccolo rifiuto della società era un rifugio contro il freddo, il fango, la neve, la pioggia, la notte, la gente!





"Per le Sacre Bevute di Bacco! - esclamò sentendo allontanarsi i passi del suo occasionale nemico - Ho temuto proprio che quell'impiccione scoprisse il mio rifugio. Ah!.. non è facile seguire le tracce di Aquilinus! Brutto cane rognoso di un cavapidocchi!.."
Un lungo sospiro, poi il ragazzo si mosse. Si arrampicò su per la scala a chiocciola che dall'interno della gamba portava fino al bacino dell'immensa statua. Qualcosa, però, ad ogni gradino che saliva, forse quel sesto senso, il senso della sopravvivenza, così sviluppato in ogni naufrago della vita, lo avvertì di non essere solo, là dentro. Lo mise in guardia.
Qualcuno aveva scoperto il suo segreto: qualcuno, di sopra, che aveva preso a tossire e che respirava così affannosamente da sembrare l'ansimare di un animale ferito.
Si compiacque con se stesso per aver conservato uno dei sassi e continuò a salire. Lentamente e con circospezione, ma decisamente. La sua faccetta infreddolita e imbronciata, riemerse all'altezza del bacino della possente scultura, sull'orlo del buco tenebroso della gamba. Là sopra non era così buio come di sotto. L'assemblaggio dei lastroni di bronzo permettevano una leggera penombra, sufficiente a vedere di dentro.

Prima di balzare su dalla botola, Aquilinus guardò a destra poi a sinistra e infine sopra la testa, ma non vide nessuno. Sentì ancora un colpo di tosse, nitido e violento.
"Chi c'è qui?" domandò sollevando la mano armata di sasso e cercando con l'altra, con la sicurezza di chi si muove in casa propria, l'asse di legno accostato a una sporgenza.
"Chi c'è qui?" ripeté la domanda.
Ora che la vista si era assuefatta all'oscurità, vide ben chiare due ombre emergere dall'oscurità.
"Sono io!" una voce timida e spaventata provenne dal fondo dell'antro.
"Io chi?.. Per la Siringa di Pan! Fatti vedere."
L'inatteso misterioso ospite avanzò di qualche passo.
"Fermo!... Fermo! Fermati! - il padrone di casa lo fermò con un gesto perentorio della mano armata di spranga - Fatti guardare un po'... Fa un po' vedere a chi appartiene la faccia di questo io!... Marcus!?" esclamò, quando un flebile raggio di luce, penetrando da una fessura, illuminò la faccetta dell'intruso.
"Sono io!"
"Sempre tu!...- sospirò Aquilinus, lasciando andare spranga e sasso - Cosa ci fai qui? Come hai fatto a scoprire questo nascondiglio?"
"Me lo hai detto tu!"
"Io?... E chi c'è lì con te?"
Qualcuno alle spalle del monello stava schiarendosi la gola.
"C'è Linus con me."
"Ah! Dovevo immaginarlo! Linus è l'ombra di Marcus. Per la Siringa di Pan! Ti porti dietro anche i clienti?" scherzava e, intanto che parlava, si muoveva all'interno dello scheletro di legno e ferro, gigantesco e tondo, come dentro una grossa botte cerchiata e attraversata da assi, spranghe, sostegni, catene, scale, corde.
Un ennesimo colpo di tosse, più forte e stizzoso ancora, gli fece rizzare nuovamente il capo e aguzzare la vista.
C'era un pagliericcio laggiù. Quattro assi di legno poggiate su due rientranze e un saccone di paglia, una coperta sdrucita e dal dubbio colore: il letto del padrone di casa.
"Altri ospiti? - domandò - Qualche piscialetto tuo amico?"
"Non un piscialetto. - spiegò Marcus con candore - Una ragazza."
"Una ragazza?...Una ragazza nel mio letto?... Per il Cinto di Venere!... Che cosa ci fa una ragazza nel mio letto? Perché una ragazza è finita dentro il mio letto?"
"Fuori fa freddo!"
"Lo so!"
"Ha ripreso a piovere."
"Ho visto!"
"Hai sentito come tossisce?"
"Ho sentito!"
"E' per lei che siamo venuti qui. Per metterla al riparo dal freddo e non aggravare la sua malattia di petto."
"Perché? Non ha una casa o un padrone?"
"Ma è proprio da lì che è scappata e..."
"Scappata? - lo interruppe ancora Aquilinus; il piccolo compagno di Marcus seguiva in silenzio il dialogo - E' una schiava in fuga?"
"No! - spiegò l'altro - Sua madre, così mi ha raccontato, vuole metterla in un bordello... In una locanda della Suburra e..."
Per la terza volta il piccolo brigante interruppe il suo protetto.
"E allora?... Non mi pare una sistemazione disdicevole. Cibo, abiti e un tetto sopra la testa per ripararsi dal freddo, l'avrebbe! No?"
"No! - l'altro ebbe una scrollatina di spalle - Lei dice che vorrebbe stare con i cristiani!"
"Uhhh!... Buoni quelli! Per colpa loro quasi mi beccavo un sacco di legnate, poco fa!"
"Io pure ho cercato di dissuaderla e le ho fatto..." tentò di spiegare Marcus ma per l'ennesima volta l'altro gli impedì di continuare.
"Avete fame? - domandò - Avete mangiato qualcosa?"
"Io ho fame! - interloquì infine il piccolo Linus, facendo spuntare un visetto sporco e un nasino arrossato, nell'angolo tra il braccio sinistro piegato e il fianco di Marcus - Io ho fame, signore!" ripetè
L'esile torace del piccolo brigante dei fornici si gonfiò di compiacimento e orgoglio a quell'epiteto: Signore! Lo sguardo acuto da animale da preda si caricò di improvvisa responsabilità!
"Tu resta qui con la ragazza. - ordinò a Marcus, col tono di chi prende le decisioni, poi puntando l'indice verso Linus - Tu invece verrai con me, ma prima proviamo a coprire questa ragazza." aggiunse all'ennesimo colpo di tosse dell'intrusa.
Aquilinus si tolse il mantello e con quello cercò di coprire la ragazza: troppo piccolo, però, per ripararla tutta.
"Ah!... Forse a Giove piace guardare le nudità di questa ragazza... Giove è fatto così...  ma Aquilinus non si dà per vinto." continuò, mettendosi alla ricerca, fra mucchi di cenci, di qualcosa con cui coprire la ragazza. che, silenziosa e immobile, lo lasciò fare; al petto stringeva con enrambe le mani un sacchetto legato al collo,
"Che cos'hai in quel sacchetto, Marcella?.. Ti chiami Marcella?" si incuriosì la piccola canaglia; non ebbe risposta.
"Pane! - fu Marcus a spiegare - Pane Sacro... Io credo."
"Che cosa significa? - Aquilinus aggrottò il ciglio - Si tratta, forse, di pane destinato a qualcuno di quegli Immortali oziosi e con la pancia già piena?"
"No! No! - s'affrettò a spiegare il piccolo - Si tratta di... ostia..."
"E che cosa sarebbe mai?"
"E' il pane sacro dei cristiani... fatto della carne e del sangue del loro Cristo..."
"Vuoi dire che si tratta di un pezzo di carne sanguinolenta?" fece il piccolo ladro dei fornici con profondo disgusto.
"Oh, no! - sempre Brutus, la ragazza continuava a tacere - E' farina di grano impastato con acqua..."
"... e non si può mangiare!... Ho capito! Sù Andiamo." disse infine, con un cospiro, lanciando un'ultima occhiata alla ragazza che lo gratificò con lo sguardo più riconoscente del mondo.
"Dove andiamo?" domandò Linus.
"A cercare del cibo, naturalmente. E a procurare qualcosa di caldo alla ragazza. Non ... non vorrai che mi muoia qui,,,  in casa mia! Sù! Andiamo, leprotto! Seguimi!"
Si apprestò ad uscire per procurare da mangiare ad una ragazza di cui non conosceva nome, né faccia.

brano tratto da   "LA DECIMA LEGIONE

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giovedì 5 marzo 2015

L'ULTIMA CENA del GLADIATORE






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La coena libera era un lauto pasto che veniva offerto agli atleti prima dei giochi nella Sala d’Armi del Ludus Gladiatorius.
Immensa e rettangolare, la sala era immersa in un’atmosfera triviale; grida, risate, bestemmie e parole oscene.
Il materiale da costruzione all’interno della sala, dalla pavimentazione alle tavole, dalle panche ai pannelli alle pareti, era vecchio legname ricavato da barche in demolizione dei porticcioli del Tevere. Appesi alle pareti, troneggiavano molti trofei: lance, schinieri, pugni di ferro e gladi, messi in mostra da atleti vincitori.
Seduti attorno alle lunghe tavolate, i gladiatori, belli, appariscenti, simili a semidei, si facevano servire da ragazze e matrone, che accondiscendevano volentieri alle loro spinte proposte.
“Suspirium puellarum.”  “Taurus Luxuriosus.” li chiamavano
Non solamente le donne deliravano, anche gli uomini se li vezzeggiavano, li lusingavano, li osannavano e facevano cadere oro nelle loro borse e cibo nei loro piatti: la marmaglia romana e il miglior patriziato si aggirava fianco a fianco tra le tavolate scrutando,  giudicando,  scommettendo, litigando.
“Dedobolo il Dacio è più forte di Sisto il Sannita.” affermava Caio.
“Il reziario Sabino non ha mai subito sconfitte.” replicava Tizio; al ché:
“E’ l’Ampsivaro Boiacolo a non aver mai subito disfatte.” ribadiva Sempronio e così, Bitini contro Sciti, Ampsivari contro
Armeni, Macedoni contro Epiroti, tutti scommettevano su tutti e le
puntate si facevano sempre più alte e i commenti più rissosi.
In verità c’erano anche atleti su cui erano tutti d’accordo: Seilace il mirmillone, Milos il trace o Spiculo il reziario.
“Per i Sacri Falò di Imbold! - una voce rabbiosa, di colpo, tacitò tutti - Dispater il Tenebroso vi cacci tutti nel vostro Averno!”
Era quella di Valentinus, un gladiatore gallo arrivato da tre anni nella scuderia di Crescens e Dispater era per lui quello che Plutone era per un romano: la sua sfuriata era un esplicito invito a tutti a farsi ammazzare.
Imponente, spalle larghe e quadrate, sguardo di brace che spostava sdegnoso dall’uno all’altro dei presenti, Valentinus prese posto sull’unico lettino rimasto vuoto.  Drusilio, medico personale, lo seguiva reggendo un catino pieno d’acqua con entrambe le mani, insieme ad uno schiavo con garze e bende: Valentinus ostentava una vistosa ferita al braccio destro e da grande animale da circo qual era se ne serviva per dare spettacolo
“Sangue! Sangue! Il mio sangue! - cominciò la recita rabbiosa, ponendo l’accento su quel ”mio” - Sanguisughe! Avete sempre sete di sangue! Volete saziarvi con questo?... Belve sanguinarie!... Con il mio sangue!... Brutte bestie feroci! – il pubblico andava in visibilio a quegli insulti - Belve feroci! Orsù! Avvicinatevi e guardate! Guardate il mio sangue…è liquido e rosso come il vostro, che avete cura di tenere ben custodito dentro le vostre vene... Che almeno questo spettacolo sia messo in scena anche per nostro utile e non solo per vostro piacere! Orsù!... Aprite le borse, se volete ammirarlo ed eccitarvi. Aprite le borse se volete assistere alla medicazione di Valentinus ed eccitarvi alla vista del suo sangue. Voi, che del vostro avete paura perfino di vederne spargere una sola goccia per la puntura di una spina... Donnicciole!”



“A chi dici donnicciole paurose?” insorse una stupenda Amazzone dal lettino attiguo, giovane, bellissima e dal corpo statuario che pareva scolpito in marmo brunito. Si chiamava Sabina. Era una Cacciatrice e anche lei doveva combattere nell’arena.
“Non a te, Sabina! Non a te! - conciliò Valentinus - Non a te che da sola vali non dieci romane, ma dieci romane con i loro amanti!... E voi, canaglie, - tornò al suo pubblico – guardate il mio sangue. Quello che andrete a gustare domani non vi basta? Volete assaggiarne già stasera!” continuava ad inveire e la gente continuava a sorridere agli insulti e stava al gioco.
Valentinus era audace e gli si perdonava  ogni cosa, anche gli insulti e l’arroganza. Trenta combattimenti e mai più di un graffio: la ferita che ostentava, forse, se l’era addirittura procurata volontariamente per meglio recitare   quella  tragicomico atellana.
Marco Valerio, Fabio e Cleonte giunsero al Ludus proprio  all’apice di quella grottesca commedia.
Trovarono Valentinus assediato da Marcia Rufo, bella, generosa, spregiudicata e non più in grado di soffocare la propria libidine.
La donna affondò la bocca su un cosciotto di agnello che il bel Valentinus teneva in mano e ne strappò un boccone; tenendolo stretto tra i denti aguzzi e voraci, lo tese al gladiatore.
Ridevano tutti. Anche Marco, suo malgrado, che si era avvicinato.
Valentinus addentò la succulenta preda e tese alla donna la coppa che reggeva nell’altra mano. Marcia tracannò e divenne del tutto indecente; il bel gladiatore, però, la respinse.
“Venere Tentatrice! Se cedessi alle tue lusinghe diventerei debole e pavido. E’ questo che vuoi, femmina lussuriosa?”
Marco Valerio, intanto,  si guardava intorno.
(continua)

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giovedì 5 febbraio 2015

Di che cosa parlavano i maschi alle Terme di Roma?




..............

Recarsi alle Terme era per Marco  solo un pretesto per incontrare gli amici ma, all’infuori di Sabino, non avevano incontrato altri.
Dopo una breve sosta nel frigidarium, nelle cui acque si rinfrescarono, decisero di raggiungere il Gymnasium.
Ridiscesero in cortile e raggiunsero la Basilica, un grandioso edificio a forma di cupola che ospitava biblioteche e sale di conversazione. Si fermarono in una sala molto simile a un triclinio, con una via-vai di schiavi carichi di vassoi pieni di salsicce, pizze e focacce provenienti direttamente dai thermopolium.
Quello dei termopulai a Roma era uno dei mestieri più lucrosi!
Quattro colonne di marmo reggevano il soffitto decorato. Vicino alla terza colonna, sdraiato sul primo dei quattro lettini trovarono Cleonte il greco, impegnato con Metello Fabrio in una controversa conversazione sulla plebe e il suo “rancore sociale”.  Il suo gesticolare impediva a una spaurita e incauta Psiche, sulla parete alle sue spalle, di contemplare le splendide fattezze di Amore. Accanto alla pittura, una scritta dissacrante recitava: “Cornelio Lepido è il finocchio del suo schiavo Rodomonte.”
“Per Ercole! Mi piacerebbe veder nudo il focoso Rodomonte.” rise Sabino, trascinandosi dietro la risata degli altri, che si divisero subito nel giudizio come se si trattasse di un gioco combinato.
“Merito alla Legge Scantinia, senza la quale certe sfrontatezze porterebbero al degrado dell’Amore.” osservò Marco che, provenendo dall’ambiente militare, mal tollerava l’omosessualità.
La Lex Scantinia  era un insieme di norme che regolavano il dilagare delle pratiche omosessuali in Roma.
“Amore? - replicò Sabino - Ma quale Amore?”
“Chiediamolo al pedagogo Cleonte. - interloquì Metello - Chiediamogli se è Amore quello per una donna, necessario a perpetrare la specie o quello per un giovine, sollecitato da libido.”
“La Natura riesce sempre a far bene il suo mestiere.- esordì il
greco, chiamato in causa - L’Amore per donne e fanciulle?... La Natura suscita frenetiche passioni nei riguardi di donne e fanciulle,  ma accende anche irrefrenabili ardori verso altri uomini o fanciulli.... E’ un altro,  il richiamo da ignorare: quello che si prende nelle vesti o nel letto di qualcuno che ti è indifferente.... Quello il solo delitto in Amore!”
“L’intimità con un maschio è indecenza solo se la compiacenza fosse strappata con la violenza!”
“E Rodomonte? - domandò Sabino - Non mi pareva che approvassi il legame di Rodomonte con Cornelio.”
“E’ l’approccio che è disdicevole. - rettificò il filosofo - Per Cornelio Lepido è riprovevole subire gli appetiti del suo schiavo!”
“Soprattutto oggi che servi e schiavi accampano sempre nuove pretese. Parlano di giustizia e libertà... parole che hanno sempre ubriacato la gente!” fece osservare l’altro.
“Non ubriacato, ma dato la spinta a malumori apparentemente sonnacchiosi e pronti a sfociare in rivolta.” replicò Lucilio.
“Grano, spettacoli e robuste catene: così si tengono sopiti i malumori della plebe.” Silio Italico s’inserì nel dialogo fra il filosofo e il Prefetto.
“Malumori… rancori sociali! – interloquì Marco - Io sono un soldato e combatto con la spada, non con la parola, ma so che
esistono Leggi che danno regole alla società!”
“Leggi che  assicurano privilegi a chi ne ha già!” replicò Cleonte.
“Ecco cosa intendevo! - intervenne il filosofo – E’ giusto che alcuni sperperino senza misura e ad altri manchi il necessario? Che alcuni si prendano potenza, onore e ricchezze lasciando agli altri processi e condanne? – una pausa, ma solo per riprendere fiato, poi Lucilio continuò, con parole, gesti e pause ben dosati - Il malcostume scende dall’alto, ma è dal basso che il malumore si manifesta per primo: liberti arroganti, strozzini, senatori asserviti e... e dall’altro versante, contadini scacciati dalle terre, gente strozzata da debiti… ”
“Basta così! - lo interruppe Metello - Sei sapiente nell’affilare le tue parole, ma hai offeso tutti, qui! Siamo nobili e senatori e non siamo come ci dipingi tu.”
“Io non dico nulla che non sia già stato detto con i fatti. Svegliatevi! Solo un atto di coraggio può fermare questa cancrena e togliere il male alla radice. Molti la pensano così, ma pochi hanno il coraggio di affermarlo.”
“E’ l’ordine attuale, quello che tu contesti, Lucilio. - insinuò il Prefetto - E’ il sovvertimento delle regole.”
“Parole pericolose per te che le dici come per noi che le ascoltiamo. -  Silio serrò in una espressione minacciosa le già strette fessure che erano i suoi occhi - Se continui a snocciolare il tuo “rancore sociale” con tanta sicumera, finirai male. Per cosa è che metti in gioco la tua vita, filosofo?”
“Metto in gioco la mia vita per qualcosa di molto prezioso!”
“E cosa sarebbe?” domandarono tutti in coro.
“La libertà di pensare! – rispose lapidario il filosofo - La capacità di liberarsi delle catene dello strozzino e del capestro degli interessi.... che poi è quello di cui avete bisogno voi tutti, se non sbaglio!… Per questo parlo di coraggio. Ci vuole coraggio per abbattere il malcostume. Il buon Seneca… gli Dei l’abbiano in gloria… diceva: Cum mori est nobis nullo auxilio sumus. E...”
“La tua lingua si muove troppo liberamente! - anche Metello lo ammonì, mentre continuava a battere nervosamente il coltello contro la coppa che gli stava davanti – Tienila a freno. Hai bevuto a troppe coppe imbevute di stoicismo: provvedi e non strozzarti!”




In fondo alla stanza, sull’uscio della grande porta d’accesso ai sotterranei, uomini sudati, sporchi di carbone, sepolti sotto carichi di legna, andavano e venivano gettando loro addosso stanche occhiate. Lucilio li additava di tanto in tanto, come a significare che era a gente come quella che si riferiva, ma quelli non si degnavano neppure di voltarsi a guardare.
“I fulmini della tua eloquenza vagano incontrollati - ancora Italico - e minacciano di incenerire questa allegra compagnia.”
“Le vostre sono solo pomposità verbali che servono a nascondere i vizi dei tempi in cui viviamo. – Lucilio era ormai lanciato - Parlate ma non dite! Spiegatemi... chi di voi ha scritto di Cornelio e del suo schiavo? E stato uno di voi... così, per ridere, ma non avete nemmeno il coraggio di attribuirvi ciò che dite per far ridere!”
“Lucilio mette sempre troppa passione nelle dispute.” intervenne a questo punto Marco, nel tentativo di allontanare l’amico dalla pericolosa logomachia in cui minacciava di affondare; dentro di sé, però, pensava che si commettevano più infamie là dentro nel giro di una giornata che in qualunque altro posto e temeva per l’amico.

(continua)

brano tratto da "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"  di Maria Pace

MONTECOVELLO EDITRICE

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