Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schIavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.

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"SEPOLTA VIVA - LA VESTALE " - Marco il Tribuno

Le tenebre avevano quasi avvolto ogni cosa, complici di delitti e malefatte, quando la biga raggiunse la sua destinazione;  l’Agger   Sceler...

giovedì 31 marzo 2022

LA DECIMA LEGIONE - VIDEO




 MISERIE   E   SPLENDORI  della   ROMA   IMPERIALE

CORINTO

 


 

 

Corinto, la lussuosa e dissoluta capitale dell’Acaia, da sempre fregiata del nome di Lume di tutta la Grecia, riusciva ancora a brillare in qualche modo sulla costa. Un lume che, come disse Cicerone, era stato spento nel 146 a.C. dal feroce e spietato console Mummio, che degli abitanti risparmiò solo donne e ragazzi al fine di ridurli in schiavitù.

Fiorente nel commercio e nella navigazione, Corinto aveva creato la prima flotta greca; sue le prime triremi a solcare i mari. Giulio Cesare la fece ricostruire, ma molte cose dell’antico splendore erano ormai spente per sempre!

L’acropoli, nella parte alta della città, a quasi centocinquanta metri sul mare, che offriva sicurezza per i suoi fianchi scoscesi, era stata la sede del nucleo antico quando Corinto era anche sede del governo della Lega Achea. Qui, nella paleopoli, la città vecchia, sorgeva il palazzo che il console Giulio Galione, subito dopo la conquista romana, aveva scelto come residenza durante il suo mandato.

Un palazzo non grande, esteso su vari livelli, con terrazze e scale esterne e costruito contro la roccia viva. All’interno, numerose stanze si raccoglievano intorno a una grande sala riunione, una splendida Sala d’Armi affrescata con scene epiche e  ornata con cimeli antichi. Vi si accedeva attraverso un portico, un atrio e un vestibolo.

Qui li ricevette il generale Tito, che, in viaggio per Roma, si era fermato per la sosta invernale ed era stato raggiunto dalla notizia della morte di Nerone.

TRACIA, principessa dei Traci e dei Geti

 



Fin da quando Lei e Milos erano stati condotti a Roma, ostaggi di guerra, il loro legame era diventato indissolubile. Erano cresciuti sotto l’ala protettiva di Kira che godeva di  prestigio  e che era sempre riuscita a tenere lontano da loro ogni preoccupazione.

Lei era diventata una ragazza che tutti trovavano graziosa e Milos si era trasformato in un ragazzo forte e atletico e un giorno, un ospite del loro patrono lo aveva notato. Si chiamava Crescens, quell’uomo erculeo ma gentile, dalla pronta risata e dalla vistosa cicatrice sulla guancia destra. Era un lanista. Uno che addestrava uomini, schiavi e non, per farne dei gladiatori. Lui stesso era stato gladiatore un giorno.

Milos a quell’epoca aveva sedici anni ma già possedeva quel dono di comunicabilità che lo rendeva trascinatore di entusiasmi e simpatie.  Fu così che Balbo non seppe dirgli di no quando Milos chiese di non separarlo dalla sorella e dalla nutrice. Giunti a Roma, Milos era diventato uno dei più acclamati gladiatori delle arene… 

mercoledì 30 marzo 2022

I BASSIFONDI DI ROMA - LA CLOACA MASSIMA

 



La geografia dei sette Colli di Roma, nati dalla eruzione degli antichi vulcani laziali, complessa e ondulata, nascondeva tra le pieghe delle colline e nel fondo delle valli coperte di edifici, anfratti e fossati. La grande città saliva e scendeva su un terreno che le convulsioni e i vulcani avevano sconvolto e mutato. La natura ricca e generosa aveva poi rivestito quel suolo con oliveti, vigneti, boschi di querce e cipressi e l’uomo l’aveva ornata con templi e palazzi.  Sotto di sé, quella città unica al mondo, nascondeva un’altra città: strade, piazze, incroci e rigagnoli di melma fangosa e acque putride. Mentre in

superficie piogge e temporali, trasformavano i marciapiedi in acquitrini, là sotto era fango permanente.

C’era, poi, la selva di condotte, cisterne e tubi per la distribuzione dell’acqua potabile che alimentava terme, fontane, palazzi e case, una infinita rete di canali che conduceva in una sola grande fogna: la Cloaca Massima, che a sua volta si gettava nel Tevere, convogliando acque e immondizie.

Il “ventre ingordo” di Roma, la chiamava Lucilio. Diceva che quel “ventre”  raccoglieva e flautolava nel Tevere tutta la ricchezza della città.

“Ogni singulto di quelle fogne è un rutto dell’Urbe grassa e sazia!” ripeteva tutte le volte che andava ad inciampare in qualche mucchietto di rifiuti dimenticato in un angolo di strada, non mancando di far notare  i fetidi scoli melmosi sotto le cunette stradali.

Una rete fognaria di prim’ordine, ampliata e migliorata nei secoli con opere di canalizzazione, come nel punto in cui la cloaca entrava nella zona del Foro, dove era stato eretto un sacello a Venere Cloacina.  Iniziava dalla Suburra, attraversava l’Argileto, il Foro, il Velabro e il Boario e si scaricava nel Tevere, nei pressi del Ponte Emilio.

 

Il gruppo si infilò in una delle tante condotte. Qui l’aria era un po’ più respirabile, l’ambiente ordinato. Segno di frequente manutenzione. L’acqua scorreva in un canale di pietra, largo più di tre metri, affiancato da due corridoi che congiungevano la volta a semicerchio; basse nicchie ne interrompevano qua e là il percorso.

Proseguirono in silenzio; i sandali battevano sulla selce producendo un rumore che l’eco trasportava dietro e lasciava alle spalle.

AQUILINUS

 

 

 


Era Aquilinus che, dal Velabro al Campo Marzio, dal Celio al Palatino, tutti conoscevano bene. Aquilinus: modello del rifugiato della cloaca, del frequentatore dei fornici, dei bassifondi della città. Aquilinus, sempre  più pallido, sempre più alto dentro la nuova tunica laticlavia avuta o rubata a chissà chi. Un piccolo fantasma nascosto entro vesti per adulti. Quasi un gioco, quel nascondersi in una veste da grandi. Non una tunica praetexta per fanciulli, dismessa da qualche piccolo patrizio; non calzari infantili o piedi nudi come tutti gli altri piccoli miserabili vestiti dalla pietà della gente, ma caligae. Caligae militari ai piedi arrossati dal freddo; grosse come barche. Anche queste reperite in chissà quale modo. Quella piccola orgogliosa canaglia non si sarebbe mai fatto vestire dalla pietà di alcuno. Le cose, lui, preferiva prendersele.

MAYA

 

 



Maya era sicuramente una “brava figliola”, come diceva Lucilio, ma soprattutto era una ragazza innamorata. Innamorata del suo filosofo svagato e sognatore e per amor suo aveva accettato quella situazione.

Diciotto anni, il suo destino era quello, prevedibile e triste, di tante bambine nate in schiavitù. Era bellissima, cosa che aveva fatto di lei la più nota e desiderata delle prostitute di Roma. Prima  di lei, anche sua madre, da cui Maya aveva eredità la travolgente bellezza, aveva conosciuto quel destino obbligato.

Un destino anche più misero, in verità! Priscilla era stata esposta alla nascita per volontà del padre che alla moglie partoriente aveva ingiunto di tenere il figlio solo se fosse stato maschio e di esporlo se femmina.

L’avevano raccolta ai piedi della Colonna Lattaria e allevata a spese dello Stato. Aveva dieci anni quando era comparsa per la prima volta in una sala d’asta per la compravendita di schiavi, insieme a una dozzina di fanciulle e fanciulli di bell’aspetto, destinati a servire nella casa di qualche ricco patrizio o ad esercitare in una Casa di Piacere. L’aveva comprata un mangone, mercante di schiavi, per conto della famiglia Crispinilla e in quella casa era cresciuta e vissuta per dar gioia

e piacere con il sorriso e il corpo giovane e ben fatto. Fino alla morte del padrone, quando si era vista affrancare per testamento. Ma anche dopo, Priscilla aveva continuato a fare quello che aveva sempre fatto: la prostibula e con la famiglia Crispinilla aveva mantenuto quel rapporto di obbligo e dipendenza previsto per legge.

Uguale destino per sua figlia, la piccola, bellissima Maja, che portava quel nome per essere nata nel mese di maggio.  Chi era il padre della piccola? Priscilla non lo sapeva davvero. Forse un tribuno, forse un censore. Oppure un console amico di famiglia del padrone. Ma avrebbe potuto essere il padrone stesso: dettaglio, se corrispondente a verità, senza alcuna importanza.

Era  bellissima. Questo sì, era un dettaglio importante. Lo era soprattutto per la padrona: Apollonia Crispinilla, madre di Calvia, che, come molte donne dell’alta società, non disdegnava il mercato della prostituzione, organizzando bordelli in cui collocarvi schiave e liberte di casa.

Maya era l’etera più bella di Roma e la più richiesta: per un sol giorno, un mese o anche un anno.

Non era facile, però, godere delle grazie di quella splendida creatura: il prezzo da corrispondere era piuttosto elevato. Permetteva a madre e figlia un certo tenore di vita e alla ingorda padrona un reddito sicuro. Se il vecchio Licinio era riuscito a strappare un contratto di un anno intero a favore di Lucilio, era stato solamente perchè all’epoca Calvia Crispinilla era amica e amante del tribuno Marco Valerio.  Il contratto era scaduto da tempo e  Lucilio era tornato libero; non Maja, però, che del suo filosofo s’era innamorata davvero e in cuor suo era pronta a tutto: sfidare la padrona e disubbidire a sua madre.

Un amore, il suo, completo, esclusivo ed assoluto. Non quello logorato dall’abuso dei sensi, ma alimentato dal sentimento. Lei, che non doveva possedere sentimenti, né appartenere  a qualcuno, poiché era di tutti e di nessuno, aveva, invece, scelto di amare. Lei, che non poteva avere amici o innamorati, ma solo amanti, aveva scelto di amare, Lei, per cui gli uomini erano capaci di rovinarsi ma non per amore, bensì per maschio orgoglio, aveva scelto di amare. E, quando una creatura come lei ubbidisce al cuore, nessun’altra emozione umana può eguagliare quel sentimento.

lunedì 28 marzo 2022

" NERONE - INCIPIT vol.II


 


CAPITOLO    I   -   Morte di Nerone

 

Era l’alba del 9 giugno del 68 d.C.

La sera precedente, Nerone era fuggito da palazzo, insieme a pochi fedelissimi. 

Che cosa aveva fatto precipitare gli eventi?

L’uomo più potente dell’impero stava consumando l’ultimo pasto del giorno quando fu raggiunto dal clamore della rivolta. Intorno a lui c’era ancora il corteggio dei fedelissimi, quello sostenuto con gli avanzi dei suoi fasti  faraonici.

“Vai, Faonte. Vai a sentire da dove proviene questo frastuono.” disse, ma il liberto non ebbe bisogno di lasciare il lettino su cui era sdraiato.

 “E’ il popolo, Divino. - rispose addentando un cosciotto di lepre  - E’ il popolo che manifesta malanimo contro Cesare.”

Nerone lo guardò stupito.  Conosceva l’ostilità di senatori e patrizi contro la sua persona, ma che la ribellione potesse venire dalla  plebe, a cui per quattordici anni aveva assicurato Panem et Circenses, non lo capiva davvero.  Guardò il suo liberto quasi con astio.

A togliere Faonte dall’imbarazzo di una replica, provvide l’arrivo di un servo con una lettera che Nerone gli ordinò di leggere.

Questi, uno dei tanti giovani di bell’aspetto di cui Nerone amava circondarsi, cominciò la lettura:  gli eserciti di tutto l’impero, c’era scritto, erano pronti o già in marcia su Roma. Perfino le fedelissime truppe vincitrici a Vesonzio si erano ribellate, manifestando il loro dissenso e offrendo la porpora imperiale al loro generale, Virginio Rufo, che l’aveva rifiutata.

Una collera furibonda colse Nerone. Balzato inpiedi, corse a strappare a viva forza la lettera dalle mani del servo, riducendola in tanti pezzettini che gettò in aria restando a guardarli cadere, poi con un calcio rovesciò la tavola intorno alla quale erano raccolti i lettini: cibi e bevande andarono a imbrattare vesti, parrucche e facce terrorizzate e stravolte.

“Che nessuno possa più bere qui dentro!” urlò, infine, scaraventando a terra i due meravigliosi calici omerici di cui era tanto geloso e restando a guardare quei capolavori dal mirabile intaglio ridursi in frantumi.  Negli attimi che seguirono, la collera lo indusse a rivolgere quel furore incontrollato anche contro se stesso. Cominciò a pestare furiosamente i piedi per terra e ad accompagnare i gesti con grugniti e versi incomprensibili.

La faccia paonazza, le guancia tristemente cascanti agli angoli della bocca,  Cesare sembrava improvvisamente invecchiato.

Passata la prima furia, i cortigiani ripresero a respirare; qualcuno tentò di blandirlo con la lusinga e la lode, così come avevano sempre fatto.

“Il popolo ama Cesare e.... “ cominciò Ninfidio Sabino.

“Non ne ho mai dubitato! Il popolo mi ha sempre amato e tributato elogi. Mi ha preferito a tutti gli altri artisti. - si compiacque Nerone – Non ricordate i Giochi di Troia al Circo Massimo…” parlava, parlava, Cesare. Di corsa, quasi senza interruzioni, poi con pause sempre più lunghe e frequenti. Parlava accompagnando le parole con una mimica che sottolineava un linguaggio sciolto, vivace. Usava o, più esattamente, utilizzava frasi o semplici vocaboli, li legava fra loro secondo il ritmo del discorso: giostrava con le parole come un consumato commediante.

“Il popolo ha sempre amato Nerone  e Nerone è sempre stato grato al suo popolo... Panem et Circenses! - continuava l’appassionato monologo - Questo chiede il popolo e questo il popolo ha sempre avuto da Cesare. Perché il popolo dovrebbe adesso ribellarsi a Cesare...  Una lettera! Scriverò una lettera al mio popolo... Andate ora. Andate tutti. Voglio restare solo per meditare.”

Rimasto da solo, Nerone si ritirò negli Horti Serviliani  per prendere la più difficile decisione della sua vita: fuggire fra i Parti o presentarsi al popolo e dai Rostri nel Foro invocare perdono ed offrire donativi.

La prima soluzione gli appariva abbastanza allettante: i Parti erano suoi amici. Non sarebbe stato facile, però, raggiungere i Parti e così scartò quella soluzione, ma scartò anche la seconda, nel timore di non riuscire a raggiungere il Foro e di essere malmenato prima che potesse aprir bocca. Ignaro della piega che stavano prendendo gli eventi e senza riuscire a prendere decisione alcuna, rientrò nei suoi appartamenti, si spogliò, indossò la veste da notte e si infilò a letto.

"TITO FLAVIO" - INCIPIT

 




CAPITOLO  I  -  Tito  Flavio

 

Raggiunto dalle ultime notizie provenienti da Roma, quella sera stessa a Corinto, il generale Tito convocava il Consiglio per valutare la situazione; ignari degli ultimi eventi, Fabio e Marco presero parte alla seduta.

Tito volle conoscere nella loro interezza i fatti riguardanti la caduta di Galba  e l’ascesa di Otone e il messaggero fu prodigo di particolari. Riferì della morte di Galba, del suo corpo ignominiosamente dilaniato e abbandonato alla profanazione e poi ricomposto dalla pietà di uno schiavo fedele. Riferì dell’esecuzione del terzetto composto da Icelo, Vinio e Lacone, a cui era seguita una giornata segnata da lutti infiniti.

“Che cosa ne è stato di Liciniano Pisone?” si informò subito Marco.

Il messaggero scosse il capo:

“E’ stata di certo la morte per la quale Otone ha provato maggior soddisfazione. - rispose, poi aggiunse - Nessuno poteva sottrarre il giovane Pisone alla sua sorte... neppure lo spazio sacro del Tempio di Vesta in cui aveva cercato rifugio... L’unico riguardo che quella gente esaltata ha avuto per la Signora del Focolare, è stato quello di non insozzare di sangue l’interno del Tempio, così ha  trascinato quel disgraziato sulla soglia, prima di sgozzarlo.”

Tito ebbe un gesto di disgusto.

“Personalmente non ho molta fede negli Immortali, ma ritengo lo stesso un atto blasfemo profanare un luogo che i più considerano sacro!”

“Alfano, un guardiano del Tempio - spiegò il messaggero – aveva provato a nasconderlo nel suo alloggio, ma i soldati lo hanno scovato e trascinato fuori per ordine espresso di Otone.”

“Conosco il guardiano del Tempio di Vesta. - disse Fabioall’orecchio di Marco - Fu lui ad aiutare Ottavia a lasciare il Santuario”

“La situazione - il messaggero dirottò su di sè l’attenzione dei due amici - a Roma è molto incerta e malsicura. La città sembra un palcoscenico su cui si sta recitando una brutta tragedia con attori della peggiore specie: Otone, naturalmente e Vitellio, il suo nuovo antagonista!”

“Sappiamo che i soldati della Ventiduesima e della Quarta Legione hanno abbattuto le statue di Galba e giurato fedeltà a Vitellio nel nome del Senato e del popolo di Roma. – interloquì Marco Valerio- Sappiamo che alla rivolta in Germania Superiore hanno aderito anche i Comandanti delle Legioni della Germania Inferiore e della Britannia.”

“Per i soldati di Britannia e Germania - precisò il generale Tito - l’inverno non rappresenta un ostacolo, abituati come sono ai regimi gelidi di quelle regioni. Intendono invadere l’Italia e occupare Roma. Chiedono solo il segnale di partenza.”

“Il segnale c’è già stato! - informò il messaggero - Si dice che Fabio Valente abbia avuto un presagio favorevole proprio il giorno in cui l’esercito si è mosso. Un’aquila, si dice, mentre era in testa alla  truppa, pare abbia guidato la colonna per un lungo tratto, prima di levarsi in volo. I soldati  hanno considerato questo fatto di buon auspicio per il loro Cesare… E pare - continuò il messaggero - che Vitellio ricusasse il titolo di Cesare e gradisse invece quello di Germanico!”

“Intendi metterti in viaggio per Roma, generale? - domandò a questo punto re Agrippa - Perché questo è quanto io ho deciso di fare!”

Tito non rispose subito; la decisione non era delle più facili. Quando si formava un’opinione o prendeva una decisione, nulla e nessuno riusciva poi a farlo desistere; se, invece, accadeva che cambiasse  idea, non lo faceva mai senza prima ponderare i fatti.

"UNA PARTITA A DADI - Milos il Gladiatore"

 



 presentiamo una divertente scenetta tratta da "LA DECIMA LEGIONE" ... " Una partita a dadi"

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La voce di Livilla raggiunse il vecchio alle spalle; l’uomo si voltò.
“Se rivuoi indietro la tua armilla, ragazzina, sprechi il tuo fiato...”
“No. Non la rivoglio indietro.... Voglio giocarla a dadi con te.”
Passato il primo attimo di sorpresa per l’insolita proposta, lo zoppo scoppiò in una sonora risata
“Tu vuoi, Ah.ah!... giocartela a dadi?... Sentitela, la puella!”
“A meno che tu non abbia paura di me!” lo provocò la ragazza.
“E contro cosa vorresti giocare la “mia” armilla?” capitolò l’altro.
“Con quest’altra armilla.” fece prontamente Livilla, estraendo da sotto la tunica una seconda armilla, identica alla prima - Chi vince se le prende tutte e due.”
Gli occhi del vecchio, incallito giocatore brillarono.
“Fa sul serio, eh!… Non hai paura che ti porti via anche l’altra?”
“Prima devi battermi, vecchio!”
“E sia! Per Giove Tonante! Ma non possiamo aprire la partita con questi oggetti. Prima dobbiamo giocarci qualche soldo.... Hai qualche soldo, puellula?”
“Qualche triens ce l’ho, vecchio!... E tu?”
“Ah,ah!... Diffidente la puella! Ce l’ho anche io. Sì!...Andiamo.”
Livilla lo seguì fin sull’uscio di quella caupona dall’aria equivoca; sopra l’uscio campeggiava un’insegna a forma di dadi e sul fianco si apriva una finestrella adombrata da un lurido cencio a mò di tendina; nessuna lanterna all’esterno, ma dall’interno, attraverso la finestrella, filtrava la luce di una lucerna appesa alla parete.
Qui Livilla si fermò. Lanciò un’occhiata all’interno e quello che vide non la rassicurò: teste agitate, braccia convulse, gran vociare e il tutto immerso in una fumosa luce fioca, ma lo zoppo vinse la sua reticenza trascinandovela dentro per un braccio.
“Ehi, gente! - gridò - Ho trovato un degno avversario ai dadi.”
Si voltarono tutti e sogghignarono alla vista del “giocatore”.
Livilla non si lasciò intimorire o, per meglio dire, riuscì assai bene a nascondere tutti i timori sotto una buona dose di sfacciataggine, propria di chi compie un’azione disperata. Sedette al tavolo che le veniva indicato e venne immediatamente circondata da una folla curiosa e sghignazzante; lo zoppo la raggiunse e anche lui sedette.
“Diamo inizio alla giocata.” disse tirando da sotto la tunica un paio di dadi che agitò a palmo chiuso sotto il naso della ragazza.
“Ehhh, no! - lo apostrofò Livilla puntando l’indice su quel pugno chiuso - Non con quei dadi, vecchio barbagianni!... Capo! - gridò all’oste - Porta qui dei dadi... e che non siano truccati!”
“Ah,ah! - risero tutti - Forse questa vecchia caliga ha trovato il suo degno avversario!”
L’oste, un uomo sulla quarantina e dall’aspetto ambiguo, arrivò con due paia di dadi chiusi in due scatolette di legno che consegnò a ognuno dei due avversari, poi prese uno sgabello e si piazzò di fronte alla ragazza; un ghignetto gli attraversava il brutto ceffo.
“Avanti! Tira tu per prima.- fece lo zoppo - Voglio darti il vantaggio della partenza, puellula!”
“Non voglio nessun vantaggio, vecchio!Voglio tirare per seconda.”
“Furbetta questa puella.” continuavano a sghignazzare tutti.
Lo zoppo agitò i dadi, capovolse la scatoletta e ne roscesciò il contenuto sul tavolo urlando:
“Cinque più quattro, puella! Ora butta tu e vediamo cosa sai fare.”
Livilla fece lo stesso con la sua scatoletta.
“Due più quattro. - disse contrariata - Un altro tiro, vecchio?”
“Quanti ne vuoi, puellula!” rise lo zoppo poi tirò.
“Tre più quattro. Un bel sette. Ora tocca a te!”
Livilla tirò.
“Tre più quattro. Un bel sette anche per me!”
“Sempre in svantaggio! – replicò l’altro - Ancora un giro?”
Sul tavolo intanto il denaro andava ammucchiandosi; lo zoppo puntò ancora.
“Quattro e sei! Ed ora, piccola impertinente, prova a battermi.”
La ragazza non rispose; tirò anche lei: sei e sei, i numeri.
“Ho vinto io!” gridò trionfante.
Lo zoppo si alzò; la guardò per un attimo, poi tese verso di lei tutto il denaro che si trovava sul tavolo: sei triens.
“E’ tuo! Hai vinto!” disse girandole le spalle, ma Livilla lo fermò:
“Ehi, zoppo! Sono qui solamente per quell’armilla che ti sei messo al collo. Lo sai, no!...E per quella che ti devi battere.... O forse il vecchio Tirso ha paura di prenderle ancora da una puellula?”
Completamente concentrata nel gioco, Livilla non si accorse di avere uno spettatore d’eccezione: Milos, che aveva appena messo piede nella bettola e la guardava con sorridente ironia: non si sarebbe mai aspettato di vederla in quel posto e impegnata in quelle faccende E con quale grinta conduceva la gara!
Lo zoppo tornò al tavolo. Si tolse dal collo il laccio con l’armilla e la poggiò sul tavolo accanto a quella della ragazza.
“Sono io, stavolta - lo provocò ancora Livilla - a darti il vantaggio dell’inizio. Avanti. Comincia tu!”
“No! Batti tu!” fece l’altro; Livilla non si fece pregare. Agitò la scatoletta e lanciò i dadi: tre e tre.
“La Fortuna si è allontanata dal tuo fianco, puella? – fece trionfante lo zoppo - Vediamo fin dove assiste il vecchio Tirso.”
Lanciò a sua volta: due e tre.
“Ho vinto io – disse la ragazza e allungò la mano verso il gioiello,
Lo zoppo la precedette. Con uno stiletto fissò l’armilla al tavolo, poi la estrasse per riprendersela
“Storpio topo di fogna! - gli gridò Livilla incollerita - Hai perso! Sei un vigliacco se ti porti via la mia vincita!”
“Sciocca puella. Prova a portarmela via tu.” ghignò lo zoppo, ma una mano dalla presa di ferro l’afferrò per un braccio facendogli fare una piroetta come fosse una trottola.
“Ti ha vinto regolarmente a dadi. Quelle armille appartengono tutte e due alla ragazza... O vuoi disputartele con me…ma non a dadi!” aggiunse minaccioso.
“Milos!... Costui è Milos il trace! - cominciarono gli entusiastici commenti - E’ il gladiatore più valente di Roma. Ehi, gente. Accorrete. Accorrete... C’è qui Milos il trace!... “
“Eh,eh, vecchio! Non ti conviene batterti con lui!”
“Adesso sì, che hai trovato un avversario, vecchio zoppo!”
Il vecchio estrasse il pugnale dal tavolo e accompagnando il gesto con un grugnito incomprensibile si allontanò. (continUA))
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"SEPOLTA VIVA - LA VESTALE " - Marco il Tribuno



Le tenebre avevano quasi avvolto ogni cosa, complici di delitti e malefatte, quando la biga raggiunse la sua destinazione; l’Agger Sceleratus, sul Quirinale, fuori le mura.
Le mani legate dietro la schiena, Ottavia fu aiutata a scendere dalla biga; la vestale mormorava qualcosa a fil di voce: una preghiera, forse. Nel silenzio che era intorno a loro si udiva solo il cigolio delle ruote e il rumore degli zoccoli, ma di tanto in tanto il vento trasportava l’eco di rumori lontani, silenzi e nuovamente rumori.
La tomba che doveva accogliere la giovane condannata era un piccolo ambiente scavato nel terreno in quel sito che prese il nome proprio dalle esecuzioni che vi si eseguivano. La luce tremolante delle due fiaccole, che un soldato reggeva in entrambe le mani, dipingeva fantasie all’orizzonte; sui volti dei pretoriani e dei due schiavi con asce e martelli, l’espressione era pietosa e afflitta.
Sotto lo sguardo chino della vestale, i due schiavi cominciarono a scavare davanti alla piccola apertura di una bassa costruzione seminterrata nel suolo, che emergeva dal terreno per un’altezza di non oltre mezzo metro. Una spinta vigorosa con la punta della caliga chiodata e stringata e la porticina si aprì, rivelando un breve passaggio che si perdeva all’interno.
Domina.. – disse semplicemente l’ufficiale in tono di profondo cordoglio. Ottavia avanzò di due o tre passi e si fermò ai piedi della piccola apertura: l’anticamera dell’Averno. – Ho fatto ripulire l’interno.” continuò l’ufficiale liberandole le mani dalle corde.
Non giovane, il volto dispiaciuto per l’ingrato ufficio, Ottavia pensò con sollievo che almeno le veniva risparmiato l’orrore della vista dei resti dell’infelice che l’aveva preceduta.
“Mia moglie ha cambiato la paglia del saccone. – continuò la voce dell’ufficiale – ed ha lavato la stoffa.”
La vestale rispose con un mesto sorriso che dovette toccare il cuore di quell’uomo rotto a tutto, più di qualunque lamento.
“Lo so che questo non può consolarti, domina.” disse, ma Ottavia:
“Mi consola, invece, centurione. Mi consola la tua pietà, quella di tua moglie e quella di tutti voi.” aggiunse guardando i volti afflitti degli altri due.
“Sono davvero spiacente, domina. Attenta… attenta alla testa!…”
Ottavia piegò la testa e si tese verso il minuscolo orrido. Entrò, girandosi di spalle e scese per tre gradini verso l’interno.
“Prendi!…” ancora la voce del centurione che tendeva un bricco pieno d’acqua e una forma rotonda di pane. Ottavia prese acqua e pane e li posò sul secondo gradino, poi prese anche la lucerna che un soldato aveva acceso alla fiamma del tripode che ardeva al fianco della Porta Collatina e la tirò all’interno.
Prima di voltarsi, l’infelice ragazza sfiorò con lo sguardo tutto quanto poteva afferrare in un ultimo abbraccio, poi senza una parola scomparve nel seno oscuro della terra; un cane in lontananza, ululava alla luna comparsa nel cielo scuro: sanguigna, quasi che Diana si fosse dilettata a pennellarla di sangue.
Ottavia scese ancora altri gradini; sette ne contò: dieci in totale, prima che i piedi toccassero la terra nuda. Qui si fermò. Per un istante rimase immobile. Come inebetita, inghiottita dal silenzio profondo e sepolcrale. Non avvertì nemmeno il rumore della porticina che si richiudeva sopra la sua testa, nè il chiavistello che scorreva cigolando; perfino i colpi di martello che inchiodavano assi dietro la piccola porta e che la isolavano dal resto del mondo, le giungevano come da remota lontananza.
Pian piano tutto tacque. Allora tese l’orecchio per sorprendere un rumore qualsiasi, un bisbiglio, un movimento. Niente! Pareva che il silenzio più totale avesse inghiottito quell’antro, scaraventandolo
nel più profondo degli abissi.
Sollevò la lucerna con gesto meccanico e la fiamma le bruciò gli occhi facendoli lacrimare. Il buio era così fitto d’accecarla.
Dovette far passare lunghi attimi prima che la fioca luce della lucerna le permettesse di scorgere attraverso le tenebre, pareti nude e annerite, nicchie vuote e un paio di torce spente appese al muro.
Febbrilmente frugò dietro la fronte alla ricerca di un pensiero, una invocazione, una parola a cui appigliarsi e con cui rompere l’infinita solitudine che pareva averle afferrato anche i pensieri:
la mente pareva completamente svuotata.
La fiaccola le tremò tra le mani; la fiamma parve sul punto di spegnersi, ma tornò subito a ravvivarsi e rivelò l’esistenza di un pagliericcio. Fu proprio quella vista a riportarla alla realtà.
L’assalì l’angoscia più profonda; il terrore più cupo le penetrò dentro come una lama rovente. Partì dallo stomaco e salì verso il cuore, che parve cessare di battere. Raggiunse il cervello. Barcollando, cercò un appiglio, ma non lo trovò, allora posò la lampada su una nicchia e di nuovo la luce minacciò di spegnersi.
Quando la penombra tornò a rischiarare la tenebra si chinò, si tolse i sandali, che appoggiò accanto alla lampada, poi il mantello, che posò per terra e si sdraiò sul pagliericcio e cominciò a pregare
“Madre Divina, concedi alla tua serva fedele una breve agonia… Ascolta la sua voce, ti prego… Vieni a spegnere questa vita prima che la fiamma di questo lume sia consumata.. – un sussulto nella pietra sotto di lei spezzò la preghiera – La terra trema…la Signora delle Fiamme ha ascoltato le mie preghiere…”
Seguì una seconda scossa.
La ciotola d’acqua sopra i gradini tremò; s’inclinò da una parte poi dall’altra, ma l’acqua non versò; così per due o tre volte. I sandali caddero a terra e la lampada oscillò. Cadde anch’essa.
La ragazza balzò in piedi e tentò di afferrarla prima che toccasse terra, riuscendo però solamente a bruciarsi l’indice e il pollice della mano destra. Una piccola crepa si stava aprendo sotto i piedi; la seguì con sguardo atterrito e speranzoso insieme mentre attraversava il pavimento da una parte all’altra.
La crepa si richiuse e tornò il silenzio: un silenzio il cui unico segno di vita era il battito furioso del suo cuore. Aveva la sensazione che non solo là sotto, ma anche fuori il silenzio fosse totale, assoluto e senza voce e che lei fosse l’unico essere vivente al mondo.
Allungò le mani per prendere la ciotola; l’accostò alle labbra. Solo poche gocce: quell’acqua doveva misurare la durata della sua vita.
Un nuovo rumore la fece nuovamente sobbalzare.
DominaDomina!… Ottavia!” qualcuno la chiamava.
Forse lo spirito dell’infelice che l’aveva preceduta?
Di colpo la tomba si scoperchiò e il cielo di Roma, stellato e buio, le riempì gli occhi già rassegnati alla morte.
Domina! – si sentì ancora chiamare – Nobile Ottavia.”
“Chi mi chiama?” domandò.
Domina! – per la terza volta, poi qualcuno si affacciò all’imbocco dell’orrido – Sono un amico.” disse, sporgendo una mano verso di lei. Ottavia si aggrappò a quella mano come annaspando nell’acqua e riemerse dalla tomba frastornata e tremante.
“Chi sei?” domandò ancora.
“Presto!- un’altra voce alle spalle del suo salvatore – Perdona, signora. La Fortuna ci ha già concesso i suoi favori questa notte. Non approfittiamo della sua benevolenza: andiamo via di qua.”
“Chi siete?”
“Il mio nome è Fabio Cimbro, domina.- disse il giovane inchinandosi – Centurione primi pili della X Legione e lui…”
“Quintilius, signora. Io sono Quintilius, Signore dei Fornici del Circo. – anche il compagno si sprofondò in un inchino ossequioso. – Muoviamoci, per i Santi Summanus e Laverna, protettori di onesti ladri e banditi coscienziosi, prima che qualcuno ci cacci là dentro – indicò la cripta scoperchiata – tutti e tre!”

(continua)