Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schIavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.

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"SEPOLTA VIVA - LA VESTALE " - Marco il Tribuno

Le tenebre avevano quasi avvolto ogni cosa, complici di delitti e malefatte, quando la biga raggiunse la sua destinazione;  l’Agger   Sceler...

giovedì 2 luglio 2015

LE FOGNE di ROMA


La geografia dei sette Colli di Roma, nati dalla eruzione degli antichi vulcani laziali, complessa e ondulata, nascondeva tra le pieghe delle colline e nel fondo delle valli coperte di edifici, anfratti e fossati. La grande città saliva e scendeva su un terreno che le convulsioni e i vulcani avevano sconvolto e mutato. La natura ricca e generosa aveva poi rivestito quel suolo con oliveti, vigneti, boschi di querce e cipressi e l’uomo l’aveva ornata con templi e palazzi.
Sotto di sé, quella città unica al mondo, nascondeva un’altra città: strade, piazze, incroci e rigagnoli di melma fangosa e acque putride. Mentre in superficie piogge e temporali, trasformavano i marciapiedi in acquitrini, là sotto era fango permanente.
C’era, poi, la selva di condotte, cisterne e tubi per la distribuzione dell’acqua potabile che alimentava terme, fontane, palazzi e case, una infinita rete di canali che conduceva in una sola grande fogna: la Cloaca Massima, che a sua volta si gettava nel Tevere, convogliando acque e immondizie.
Il “ventre ingordo” di Roma, la chiamava Lucilio. Diceva che quel “ventre”  raccoglieva e flautolava nel Tevere tutta la ricchezza della città.
“Ogni singulto di quelle fogne è un rutto dell’Urbe grassa e sazia!” ripeteva tutte le volte che andava ad inciampare in qualche mucchietto di rifiuti dimenticato in un angolo di strada, non mancando di far notare  i fetidi scoli melmosi sotto le cunette stradali.
Una rete fognaria di prim’ordine, ampliata e migliorata nei secoli con opere di canalizzazione, come nel punto in cui la cloaca entrava nella zona del Foro, dove era stato eretto un sacello a Venere Cloacina.  Iniziava dalla Suburra, attraversava l’Argileto, il Foro, il Velabro e il Boario e si scaricava nel Tevere, nei pressi del Ponte Emilio.

Il gruppo si infilò in una delle tante condotte. Qui l’aria era un pò più respirabile, l’ambiente ordinato. Segno di frequente manutenzione. L’acqua scorreva in un canale di pietra, largo più di tre metri, affiancato da due corridoi che congiungevano la volta a semicerchio; basse nicchie ne interrompevano qua e là il percorso.
Proseguirono in silenzio; i sandali battevano sulla selce producendo un rumore che l’eco trasportava dietro e si lasciava alle spalle.



Due ombre sbucarono improvvise da  una di quelle nicchie parandosi davanti al gruppo. In una di loro Lucilla riconobbe la formidabile figura del principe dei Siluri.
Senza nemmeno una parola, Seilace porse ai due soldati un tintinnante sacchetto; il pretoriano lo afferrò, fece cenno al compagno e questi pose a terra, con molta delicatezza, il fardello che portava in spalle, poi si voltò per allontanarsi.
“Che cos’è questo?” Seilace indicò la coperta e il suo contenuto. Lucilla si chinò a scoprire il bel volto di Keriat, gli occhi chiusi .
“L’hanno violentata!” disse semplicemente, con voce incolore.
“Porci!” sbottò l’uomo alle spalle di Seilace.
Lucilla sollevò lo sguardo su di lui



. Ricordò di averlo visto qualche volta in compagnia di Marco.
Si chiamava Tiberio Crasso ed era un censore, un curatores acquarium, uno di quelli che  si occupavano della amministrazione di fontane, acquedotti, cisterne, cloache; uno che doveva conoscere assai bene quei sotterranei.
Raccolta la rabbia, il valente gladiatore si chinò sul corpo della piccola e lo sollevò; l’acqua correva nel canale. Lucilla la guardava scivolar via, poi, d’improvviso, qualcosa venne a galleggiare in superficie: un mantello color dattero, una lunga capigliatura castana. Alle spalle della ragazza, Ottavia ebbe una esclamazione soffocata.
“I condannati. - disse Seilace - I corpi stanno andando verso le acque del fiume.”
“Non stiamo andando verso il Tevere. - spiegò il censore; avevano fatto ripulire le fogne neanche dieci mesi prima, ma gli ultimi sanguinosi eventi le avevano nuovamente riempite di cadaveri - Forse quell’infelice era ancora viva quando l’hanno scaricata nella fogna. Forse prima di ucciderla l’hanno condotta qui per...” s’interruppe. Ma avevano capito tutti.
“L’Ade non sarà più tetro e orrendo!” pensò Lucilla con un brivido.



Proseguirono. A passo lento e non senza affanno. Svoltarono l’angolo e sbucarono in un secondo corridoio più largo e più basso di almeno mezza spanna. Il percorso andò facendosi sempre più difficoltoso. Le acque dell’ultima pioggia non erano defluite completamente e formavano un piccolo torrente che trasportava di tutto.
Dal rumore di zoccoli e cigolii di  ruote che proveniva da sopra le loro teste, capirono di aver lasciato la zona del Foro e di essere entrati nel Velabro.
Ombre inquiete cominciarono a comparire e scomparire intorno a loro: fantasmi frequentatori di quel putridume.  Stragi, rivolte, fughe: tutto era passato attraverso quelle fogne. Tutto trovava rifugio là sotto: la lotta armata, la coscienza civile, la ribellione di gruppo, la rabbia singola.
Le fogne erano lo specchio della città e l’immondizia era la personalità dei suoi abitanti: una veste ancora intatta raccontava i capricci della ricchezza, un telo a brandelli, invece, la disperazione della miseria.  Abbondanti avanzi rivelavano luculliane cene e ossa rosicchiate denunciavano fame non sazia.
Nessuno si stupì dell’improvvisa apparizione partorita quasi dal nulla.
“Ehi! Piccolo topo di fogna! Hai trovato qualcosa da rosicchiare qua sotto?” disse ridendo il censore.
“Quello che manca dalla tua borsa, signore!... Con tutto rispetto!” fu la pronta risposta.
“Aquilinus!” esclamarono insieme tutti gli altri.

Era Aquilinus che, dal Velabro al Campo Marzio, dal Celio al Palatino, tutti conoscevano bene. Aquilinus: modello del rifugiato della cloaca, del frequentatore dei fornici, dei bassifondi della città. Aquilinus, sempre  più pallido, sempre più alto dentro la nuova tunica laticlaviaavuta o rubata a chissà chi. Un piccolo fantasma nascosto entro vesti per adulti. Quasi un gioco, quel nascondersi in una veste da grandi. Non una tunica praetexta per fanciulli, dismessa da qualche piccolo patrizio; non calzari infantili o piedi nudi come tutti gli altri piccoli miserabili vestiti dalla pietà della gente, ma caligae. Caligae militari ai  piccoli piedi arrossati dal freddo; grosse come barche. Anche queste reperite in chissà quale modo. Quella piccola orgogliosa canaglia non si sarebbe mai fatto vestire dalla pietà di alcuno. Le cose, lui, preferiva prendersele.
Puntò il piccolo indice sulla figura del valente gladiatore e sulla figuretta nella posa dell’ abbandono che portava sulle braccia.
“E’ Keriat? - domandò - Sta dormendo?”
Lucilla si girò a guardarlo.
“Sì! - rispose con voce incolore - Dorme!”
“E come state, tu e la nobile vestale Ottavia? – tornò a domandare il piccolo - Vi vedo in ottima salute e me ne rallegro!... Ma ora muoviamoci da qui. Seguitemi!” continuò assumendo un tono di autorità.
“Siamo già oltre il Foro. - disse Tiberio alle sue spalle -  Riemergeremo al prossimo svincolo tra la Via Vetrari e La Via...”
Ma Aquilinus scuoteva il capo.
“Consiglierei di proseguire.” suggerì; il censore lo squadrò da capo a piedi.
“... e la Via Nova.  – continuò il censore - Potremo riemergere non visti al mercato tra le bancarelle.”
“Ci troviamo proprio sotto la Basilica Giulia, signore. - replicò il piccolo - Non passeremmo inosservati ai tanti passanti e sfaccendati che stazionano di sopra. Uscire all’aperto, richiamerebbe l’attenzione dei soldati.”

Aveva ragione. Il piccolo signore dei Fornici di Roma conosceva perfettamente i sotterranei della sua città. L’intreccio di quelle arterie erano simili agli svincoli, anse, strade, viuzze, in superficie, che lui continuava a ripetere di conoscere come la sua borsa appesa al fianco e in cui si muoveva con passo fermo e sicuro.
“Per i Calzari Alati di Mercurio! - esclamò con enfasi - Protettore mio e di tutti i miei simili! Come credi, signore, che io riesca a prendermi gioco di tutte le guardie… comprese le tue? - aggiunse con irresistibile, vivace ironia -  Seguitemi!”
Con un cenno della piccola mano nera di fumo li invitò a seguirlo. Alla prima articolazione si girò verso Crasso.
I lavori di manutenzione in quel settore erano quasi terminati; gli ultimi mucchi di detriti e immondizia, ai lati degli scoli, parevano in attesa di smaltimento, i corridoi erano puliti, solo qualche topo grosso e ben pasciuto, che correva veloce.
La fogna era fredda laggiù, ma pulita; l’acqua nello scolo pareva scorrere senza grossi intoppi.
“Siamo sotto il Foro Boario.” Aquilinus si voltò come a chiedere conferma al censore.
“Sotto l’Arco di Giano! - precisò questi - Nel ramo antico della cloaca. - indicò la volta - Qui  un tempo la fogna correva a cielo aperto. La rete, come si vede, tende a risalire verso le pendici del Palatino.”
“Non c’è pericolo di perdersi, quaggiù?” la voce di Ottavia, bassa e un po’ roca, costrinse il censore a volgere il capo. Si faticava a respirare là sotto.
“Per chi non la conosce, domina, questa fognatura è più insidiosa del labirinto di Creta. - rispose - Le possibilità di smarrirsi sono molte. Qui dove ci troviamo, convergono numerosi sbocchi... in numero più elevato che nel resto della città e lo smaltimento, come si vede, è un dedalo di canali che bisogna conoscere uno per uno... Ma io li conosco, domina!” la rassicurò, tendendo una mano in direzione del corridoio.
Anche Aquilinus mostrava di possedere la stessa conoscenza e li  precedeva.

“Questo corridoio - disse - conduce alle tabernae del Circo Massimo.”

(CONTINUA)

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LA VIOLENZA


.................
Lo sguardo di Lucilla seguì terrorizzato il pretoriano che richiudeva la porta alle spalle della donna e si faceva avanti. Seguì con raccapriccio il sorriso da ebete che gli istupidiva il volto, il lampo inequivocabile che gli incendiava lo sguardo mentre con gesti eccitati si toglieva l’elmo.
“La voglio prima per me. - udì la voce del compagno altrettanto eccitata - Dopo potrai farne ciò che ti aggrada!”
“Non mi serve la ragazza. – rispose l’altro, freddo, gelido, composto – E’ troppo vecchia per me. Io voglio la piccolina!”
”No! - Lucilla scosse il capo inorridita; la pietra le tremò sotto i piedi; il soffitto parve venirle addosso - E’ ancora una bambina…” riuscì a dire con voce soffocata.
Quello però l’aveva già raggiunta e le strappava Keriat dalle braccia; elmi, spade e corazze giacevano sparsi per terra.
Muta di terrore, Keriat barcollò; l’uomo la sostenne. Un gesto quasi affettuoso. Paterno.
“Vieni, piccolina. - diceva - Dopo ti farò un bel regalo. Togliamo questi vestiti. Ti scalderò io se avrai freddo...”
Le tolse i vestiti con gesti pacati, amorevoli; le accarezzò i capelli, le spalle, i piccoli seni in sboccio.
“Lasciala andare. E’ ancora una bambina. Lasciala...” urlò Lucilla lanciandosi in avanti, ma una mano l’agguantò. Forte come una morsa. Una stretta implacabile. Sentì sulla faccia l’alito pesante dell’uomo, il suo respiro affannoso.  Non provò neppure a svincolarsi: un urto e si trovò distesa per terra e l’uomo sopra di lei.
Era pesante.
Sentiva il suo largo torace schiacciarla e impedirle di respirare. Tentò, ma inutilmente, di liberarsene, poi il  sapore delle sue labbra bavose sul collo, sulle guancia e sulle labbra l’annegò di disgusto. 
Aprì la bocca e affondò i denti in quel labbro.
Il pretoriano dette in un grido di dolore, ritrasse il capo e sollevò una mano, che si abbattè con inaudita violenza sulla sua bocca.
“Brutta cagna rognosa! - lo udì imprecare - Ti insegnerò io a mordere!”
Lucilla sentì il sangue scorrerle lungo le labbra e il mento e nuovamente la bocca e la lingua di quell’essere immondo percorrerla e insozzarla di bava e saliva mischiate al proprio sangue; l’urlo di Keriat le lacerò le orecchie e il cuore e  un’angoscia disperata le  afferrò lo spirito.
Poi, d’improvviso, uno strazio fisico!
Le impediva fin’anche di respirare, come se una lama cercasse di affondare nella carne. Capì che l’uomo stava penetrando dentro di lei.
Spalancò gli occhi atterrita. 
Dal profondo della mente partì un puntino doloroso. Una ferita che espandendosi scatenava nel cervello un ribollire tumultuoso di paure e travagli che il cervello non era capace di contenere. Finalmente l’urlo. Un urlo che era retaggio di ataviche paure represse per generazione e che le sconvolsero la mente.
Poi, di colpo, un volto di donna, dolce e sorridente, prese forma in quell’etra maligno e nemico.
“Mamma!...” urlò.
Era la prima volta che sua madre “tornava” da quando era morta, quasi quattro anni prima. Scosse il capo e la “visione” s’appannò; lentamente si adombrò, fino a a diventare luce trasparente. Svenne! Aveva raggiunto quel confine oltre cui la misericordia divina non permette di andare e le risorse  fisiche esauriscono.
Non si accorse della porta che si apriva e di qualcuno che sollevava di peso lo stupratore scaraventandolo di lato. Quando rinvenne, in una bruma di paure e vergogne, del soccorritore sentì solo la voce, poichè continuava a tenere gli occhi chiusi in un silenzio profondo rotto solo da respiri affannosi.
Non sentiva più neppur le grida di Keriat.
Fu proprio questo a scaraventarla fuori della bruma delle proprie angosce: quel silenzio era più terribile delle urla.
“Cosa stai facendo, animale?” sentiva la voce del soccorritore; una voce contrariata, ma sconosciuta.
“Di cosa ti impicci? – quella dello stupratore - Calvia Crispinilla in persona ha affidato costei alle mie cure!”
“Imbecille! Quando Cesare lo saprà ti farà scorticare vivo!”
“Per tutti gli Dei!... Perché?”
“Perché costei è la moglie del tribuno Marco Valerio Flavio, animale! Cesare vuole servirsene per trattare con lui e il generale, Vespasiano, il Legato della Giudea. Finirai sotto la scure del boia!”
“Maledizione!” imprecò lo stupratore tentando di darsi contegno. Intanto guardava la sua vittima e faceva l’atto di tirarla su dal pavimento. Con uno spintone il centurione lo ricacciò in fondo allo stanzone, poi si voltò verso Lucilla:
“Cosa ti ha fatto questo animale, domina. Ha abusato di te? - la voce era compassionevole e gentile, ma Lucilla non rispose: era umiliante dover spiegare. L’altro insisté - Hai capito cosa ti ho chiesto, domina? Questo animale ha abusato di te?”
Lucilla continuava a tacere e per non subire il suo sguardo abbassò il capo
Il primo irrompere della vergogna al cervello fu un vortice impetuoso che andò dilagando fino nelle più remote e nascoste pieghe dell’anino Come una folgore l’aggredì al cuore, coinvolgendo nervi, ossa, pelle: la voce e lo sguardo del centurione le davano la misura dell’offesa subita.
L’assalì il bisogno di nascondere l’offesa e la vergogna, il bisogno di nascondersi in un luogo buio, il bisogno di nascondersi a quell’uomo, che pure l’aveva sottratta alla violenza di un bruto.
L’assalì il bisogno di morire.
Ma non poteva fare nulla di tutto ciò e non trovò altro rimedio che conficcarsi le unghia nella carne, ma un gemito la strappò a quell’angoscioso smarrimento: Keriat.
Giaceva in un angolo, svenuta, seminuda e sanguinante. Dimenticò se stessa; si trascinò per terra e la raggiunse. Si chinò sopra di lei. La chiamò:
“Keriat!”
Anche il centurione si accostò alla piccola; anche lui si chinò. La contemplò in silenzio.
“Che scempio! - esclamò con accento nauseato, poi - Devi venire con me, domina. Cesare vuole parlare con te.” disse.
(CONTINUA)

brano tratto da  "LA DECIMA LEGIONE - Sulla via per Gerusalemme"

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LA DECIMA LEGIONE - Milos il Gladiatore





Correva l’anno 882-883. il 68-69 dell’era cristiana: l’anno più lungo di tutta la storia dell’Antica Roma, che vide la cruenta fine di quattro imperatori.
Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schiavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.
Fu anche l’anno in cui il Cristianesimo, approdato a Roma assieme a molti altri culti orientali, metteva i primi germogli, pur tra sospetti, speranze e persecuzioni.
Intrappolati nelle maglie delle tante manovre civili, politiche e militari, si trovarono anche il tribuno Marco Valerio e il centurione Fabio, il filosofo Lucilio e il  pedagogo Cleonte, i gladiatori Milos e Seilace e il taverniere Trebonio, la vestale Ottavia e la prigioniera di guerra Tracia, il piccolo fuorilegge Aquilinus e la giovane ereditiera Livilla, l’ostaggio Lucilla e tanti altri ancora.
Uno spaccato di vita nella Roma d’epoca imperiale