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Lo sguardo di Lucilla seguì terrorizzato il pretoriano che richiudeva la porta alle spalle della donna e si faceva avanti. Seguì con raccapriccio il sorriso da ebete che gli istupidiva il volto, il lampo inequivocabile che gli incendiava lo sguardo mentre con gesti eccitati si toglieva l’elmo.
“La voglio prima per me. - udì la voce del compagno altrettanto eccitata - Dopo potrai farne ciò che ti aggrada!”
“Non mi serve la ragazza. – rispose l’altro, freddo, gelido, composto – E’ troppo vecchia per me. Io voglio la piccolina!”
”No! - Lucilla scosse il capo inorridita; la pietra le tremò sotto i piedi; il soffitto parve venirle addosso - E’ ancora una bambina…” riuscì a dire con voce soffocata.
Quello però l’aveva già raggiunta e le strappava Keriat dalle braccia; elmi, spade e corazze giacevano sparsi per terra.
Muta di terrore, Keriat barcollò; l’uomo la sostenne. Un gesto quasi affettuoso. Paterno.
“Vieni, piccolina. - diceva - Dopo ti farò un bel regalo. Togliamo questi vestiti. Ti scalderò io se avrai freddo...”
Le tolse i vestiti con gesti pacati, amorevoli; le accarezzò i capelli, le spalle, i piccoli seni in sboccio.
“Lasciala andare. E’ ancora una bambina. Lasciala...” urlò Lucilla lanciandosi in avanti, ma una mano l’agguantò. Forte come una morsa. Una stretta implacabile. Sentì sulla faccia l’alito pesante dell’uomo, il suo respiro affannoso. Non provò neppure a svincolarsi: un urto e si trovò distesa per terra e l’uomo sopra di lei.
Era pesante.
Sentiva il suo largo torace schiacciarla e impedirle di respirare. Tentò, ma inutilmente, di liberarsene, poi il sapore delle sue labbra bavose sul collo, sulle guancia e sulle labbra l’annegò di disgusto.
Aprì la bocca e affondò i denti in quel labbro.
Il pretoriano dette in un grido di dolore, ritrasse il capo e sollevò una mano, che si abbattè con inaudita violenza sulla sua bocca.
“Brutta cagna rognosa! - lo udì imprecare - Ti insegnerò io a mordere!”
Lucilla sentì il sangue scorrerle lungo le labbra e il mento e nuovamente la bocca e la lingua di quell’essere immondo percorrerla e insozzarla di bava e saliva mischiate al proprio sangue; l’urlo di Keriat le lacerò le orecchie e il cuore e un’angoscia disperata le afferrò lo spirito.
Poi, d’improvviso, uno strazio fisico!
Le impediva fin’anche di respirare, come se una lama cercasse di affondare nella carne. Capì che l’uomo stava penetrando dentro di lei.
Spalancò gli occhi atterrita.
Dal profondo della mente partì un puntino doloroso. Una ferita che espandendosi scatenava nel cervello un ribollire tumultuoso di paure e travagli che il cervello non era capace di contenere. Finalmente l’urlo. Un urlo che era retaggio di ataviche paure represse per generazione e che le sconvolsero la mente.
Poi, di colpo, un volto di donna, dolce e sorridente, prese forma in quell’etra maligno e nemico.
“Mamma!...” urlò.
Era la prima volta che sua madre “tornava” da quando era morta, quasi quattro anni prima. Scosse il capo e la “visione” s’appannò; lentamente si adombrò, fino a a diventare luce trasparente. Svenne! Aveva raggiunto quel confine oltre cui la misericordia divina non permette di andare e le risorse fisiche esauriscono.
Non si accorse della porta che si apriva e di qualcuno che sollevava di peso lo stupratore scaraventandolo di lato. Quando rinvenne, in una bruma di paure e vergogne, del soccorritore sentì solo la voce, poichè continuava a tenere gli occhi chiusi in un silenzio profondo rotto solo da respiri affannosi.
Non sentiva più neppur le grida di Keriat.
Fu proprio questo a scaraventarla fuori della bruma delle proprie angosce: quel silenzio era più terribile delle urla.
“Cosa stai facendo, animale?” sentiva la voce del soccorritore; una voce contrariata, ma sconosciuta.
“Di cosa ti impicci? – quella dello stupratore - Calvia Crispinilla in persona ha affidato costei alle mie cure!”
“Imbecille! Quando Cesare lo saprà ti farà scorticare vivo!”
“Per tutti gli Dei!... Perché?”
“Perché costei è la moglie del tribuno Marco Valerio Flavio, animale! Cesare vuole servirsene per trattare con lui e il generale, Vespasiano, il Legato della Giudea. Finirai sotto la scure del boia!”
“Maledizione!” imprecò lo stupratore tentando di darsi contegno. Intanto guardava la sua vittima e faceva l’atto di tirarla su dal pavimento. Con uno spintone il centurione lo ricacciò in fondo allo stanzone, poi si voltò verso Lucilla:
“Cosa ti ha fatto questo animale, domina. Ha abusato di te? - la voce era compassionevole e gentile, ma Lucilla non rispose: era umiliante dover spiegare. L’altro insisté - Hai capito cosa ti ho chiesto, domina? Questo animale ha abusato di te?”
Lucilla continuava a tacere e per non subire il suo sguardo abbassò il capo
Il primo irrompere della vergogna al cervello fu un vortice impetuoso che andò dilagando fino nelle più remote e nascoste pieghe dell’anino Come una folgore l’aggredì al cuore, coinvolgendo nervi, ossa, pelle: la voce e lo sguardo del centurione le davano la misura dell’offesa subita.
L’assalì il bisogno di nascondere l’offesa e la vergogna, il bisogno di nascondersi in un luogo buio, il bisogno di nascondersi a quell’uomo, che pure l’aveva sottratta alla violenza di un bruto.
L’assalì il bisogno di morire.
Ma non poteva fare nulla di tutto ciò e non trovò altro rimedio che conficcarsi le unghia nella carne, ma un gemito la strappò a quell’angoscioso smarrimento: Keriat.
Giaceva in un angolo, svenuta, seminuda e sanguinante. Dimenticò se stessa; si trascinò per terra e la raggiunse. Si chinò sopra di lei. La chiamò:
“Keriat!”
Anche il centurione si accostò alla piccola; anche lui si chinò. La contemplò in silenzio.
“Che scempio! - esclamò con accento nauseato, poi - Devi venire con me, domina. Cesare vuole parlare con te.” disse.
(CONTINUA)
brano tratto da "LA DECIMA LEGIONE - Sulla via per Gerusalemme"
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