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La coena libera era un lauto pasto che veniva offerto agli atleti prima dei giochi nella Sala d’Armi del Ludus Gladiatorius.
Immensa e rettangolare, la sala era immersa in un’atmosfera triviale; grida, risate, bestemmie e parole oscene.
Il materiale da costruzione all’interno della sala, dalla pavimentazione alle tavole, dalle panche ai pannelli alle pareti, era vecchio legname ricavato da barche in demolizione dei porticcioli del Tevere. Appesi alle pareti, troneggiavano molti trofei: lance, schinieri, pugni di ferro e gladi, messi in mostra da atleti vincitori.
Seduti attorno alle lunghe tavolate, i gladiatori, belli, appariscenti, simili a semidei, si facevano servire da ragazze e matrone, che accondiscendevano volentieri alle loro spinte proposte.
“Suspirium puellarum.” “Taurus Luxuriosus.” li chiamavano
Non solamente le donne deliravano, anche gli uomini se li vezzeggiavano, li lusingavano, li osannavano e facevano cadere oro nelle loro borse e cibo nei loro piatti: la marmaglia romana e il miglior patriziato si aggirava fianco a fianco tra le tavolate scrutando, giudicando, scommettendo, litigando.
“Dedobolo il Dacio è più forte di Sisto il Sannita.” affermava Caio.
“Il reziario Sabino non ha mai subito sconfitte.” replicava Tizio; al ché:
“E’ l’Ampsivaro Boiacolo a non aver mai subito disfatte.” ribadiva Sempronio e così, Bitini contro Sciti, Ampsivari contro
Armeni, Macedoni contro Epiroti, tutti scommettevano su tutti e le
puntate si facevano sempre più alte e i commenti più rissosi.
In verità c’erano anche atleti su cui erano tutti d’accordo: Seilace il mirmillone, Milos il trace o Spiculo il reziario.
“Per i Sacri Falò di Imbold! - una voce rabbiosa, di colpo, tacitò tutti - Dispater il Tenebroso vi cacci tutti nel vostro Averno!”
Era quella di Valentinus, un gladiatore gallo arrivato da tre anni nella scuderia di Crescens e Dispater era per lui quello che Plutone era per un romano: la sua sfuriata era un esplicito invito a tutti a farsi ammazzare.
Imponente, spalle larghe e quadrate, sguardo di brace che spostava sdegnoso dall’uno all’altro dei presenti, Valentinus prese posto sull’unico lettino rimasto vuoto. Drusilio, medico personale, lo seguiva reggendo un catino pieno d’acqua con entrambe le mani, insieme ad uno schiavo con garze e bende: Valentinus ostentava una vistosa ferita al braccio destro e da grande animale da circo qual era se ne serviva per dare spettacolo
“Sangue! Sangue! Il mio sangue! - cominciò la recita rabbiosa, ponendo l’accento su quel ”mio” - Sanguisughe! Avete sempre sete di sangue! Volete saziarvi con questo?... Belve sanguinarie!... Con il mio sangue!... Brutte bestie feroci! – il pubblico andava in visibilio a quegli insulti - Belve feroci! Orsù! Avvicinatevi e guardate! Guardate il mio sangue…è liquido e rosso come il vostro, che avete cura di tenere ben custodito dentro le vostre vene... Che almeno questo spettacolo sia messo in scena anche per nostro utile e non solo per vostro piacere! Orsù!... Aprite le borse, se volete ammirarlo ed eccitarvi. Aprite le borse se volete assistere alla medicazione di Valentinus ed eccitarvi alla vista del suo sangue. Voi, che del vostro avete paura perfino di vederne spargere una sola goccia per la puntura di una spina... Donnicciole!”
“A chi dici donnicciole paurose?” insorse una stupenda Amazzone dal lettino attiguo, giovane, bellissima e dal corpo statuario che pareva scolpito in marmo brunito. Si chiamava Sabina. Era una Cacciatrice e anche lei doveva combattere nell’arena.
“Non a te, Sabina! Non a te! - conciliò Valentinus - Non a te che da sola vali non dieci romane, ma dieci romane con i loro amanti!... E voi, canaglie, - tornò al suo pubblico – guardate il mio sangue. Quello che andrete a gustare domani non vi basta? Volete assaggiarne già stasera!” continuava ad inveire e la gente continuava a sorridere agli insulti e stava al gioco.
Valentinus era audace e gli si perdonava ogni cosa, anche gli insulti e l’arroganza. Trenta combattimenti e mai più di un graffio: la ferita che ostentava, forse, se l’era addirittura procurata volontariamente per meglio recitare quella tragicomico atellana.
Marco Valerio, Fabio e Cleonte giunsero al Ludus proprio all’apice di quella grottesca commedia.
Trovarono Valentinus assediato da Marcia Rufo, bella, generosa, spregiudicata e non più in grado di soffocare la propria libidine.
La donna affondò la bocca su un cosciotto di agnello che il bel Valentinus teneva in mano e ne strappò un boccone; tenendolo stretto tra i denti aguzzi e voraci, lo tese al gladiatore.
Ridevano tutti. Anche Marco, suo malgrado, che si era avvicinato.
Valentinus addentò la succulenta preda e tese alla donna la coppa che reggeva nell’altra mano. Marcia tracannò e divenne del tutto indecente; il bel gladiatore, però, la respinse.
“Venere Tentatrice! Se cedessi alle tue lusinghe diventerei debole e pavido. E’ questo che vuoi, femmina lussuriosa?”
Marco Valerio, intanto, si guardava intorno.
La coena libera era un lauto pasto che veniva offerto agli atleti prima dei giochi nella Sala d’Armi del Ludus Gladiatorius.
Immensa e rettangolare, la sala era immersa in un’atmosfera triviale; grida, risate, bestemmie e parole oscene.
Il materiale da costruzione all’interno della sala, dalla pavimentazione alle tavole, dalle panche ai pannelli alle pareti, era vecchio legname ricavato da barche in demolizione dei porticcioli del Tevere. Appesi alle pareti, troneggiavano molti trofei: lance, schinieri, pugni di ferro e gladi, messi in mostra da atleti vincitori.
Seduti attorno alle lunghe tavolate, i gladiatori, belli, appariscenti, simili a semidei, si facevano servire da ragazze e matrone, che accondiscendevano volentieri alle loro spinte proposte.
“Suspirium puellarum.” “Taurus Luxuriosus.” li chiamavano
Non solamente le donne deliravano, anche gli uomini se li vezzeggiavano, li lusingavano, li osannavano e facevano cadere oro nelle loro borse e cibo nei loro piatti: la marmaglia romana e il miglior patriziato si aggirava fianco a fianco tra le tavolate scrutando, giudicando, scommettendo, litigando.
“Dedobolo il Dacio è più forte di Sisto il Sannita.” affermava Caio.
“Il reziario Sabino non ha mai subito sconfitte.” replicava Tizio; al ché:
“E’ l’Ampsivaro Boiacolo a non aver mai subito disfatte.” ribadiva Sempronio e così, Bitini contro Sciti, Ampsivari contro
Armeni, Macedoni contro Epiroti, tutti scommettevano su tutti e le
puntate si facevano sempre più alte e i commenti più rissosi.
In verità c’erano anche atleti su cui erano tutti d’accordo: Seilace il mirmillone, Milos il trace o Spiculo il reziario.
“Per i Sacri Falò di Imbold! - una voce rabbiosa, di colpo, tacitò tutti - Dispater il Tenebroso vi cacci tutti nel vostro Averno!”
Era quella di Valentinus, un gladiatore gallo arrivato da tre anni nella scuderia di Crescens e Dispater era per lui quello che Plutone era per un romano: la sua sfuriata era un esplicito invito a tutti a farsi ammazzare.
Imponente, spalle larghe e quadrate, sguardo di brace che spostava sdegnoso dall’uno all’altro dei presenti, Valentinus prese posto sull’unico lettino rimasto vuoto. Drusilio, medico personale, lo seguiva reggendo un catino pieno d’acqua con entrambe le mani, insieme ad uno schiavo con garze e bende: Valentinus ostentava una vistosa ferita al braccio destro e da grande animale da circo qual era se ne serviva per dare spettacolo
“Sangue! Sangue! Il mio sangue! - cominciò la recita rabbiosa, ponendo l’accento su quel ”mio” - Sanguisughe! Avete sempre sete di sangue! Volete saziarvi con questo?... Belve sanguinarie!... Con il mio sangue!... Brutte bestie feroci! – il pubblico andava in visibilio a quegli insulti - Belve feroci! Orsù! Avvicinatevi e guardate! Guardate il mio sangue…è liquido e rosso come il vostro, che avete cura di tenere ben custodito dentro le vostre vene... Che almeno questo spettacolo sia messo in scena anche per nostro utile e non solo per vostro piacere! Orsù!... Aprite le borse, se volete ammirarlo ed eccitarvi. Aprite le borse se volete assistere alla medicazione di Valentinus ed eccitarvi alla vista del suo sangue. Voi, che del vostro avete paura perfino di vederne spargere una sola goccia per la puntura di una spina... Donnicciole!”
“A chi dici donnicciole paurose?” insorse una stupenda Amazzone dal lettino attiguo, giovane, bellissima e dal corpo statuario che pareva scolpito in marmo brunito. Si chiamava Sabina. Era una Cacciatrice e anche lei doveva combattere nell’arena.
“Non a te, Sabina! Non a te! - conciliò Valentinus - Non a te che da sola vali non dieci romane, ma dieci romane con i loro amanti!... E voi, canaglie, - tornò al suo pubblico – guardate il mio sangue. Quello che andrete a gustare domani non vi basta? Volete assaggiarne già stasera!” continuava ad inveire e la gente continuava a sorridere agli insulti e stava al gioco.
Valentinus era audace e gli si perdonava ogni cosa, anche gli insulti e l’arroganza. Trenta combattimenti e mai più di un graffio: la ferita che ostentava, forse, se l’era addirittura procurata volontariamente per meglio recitare quella tragicomico atellana.
Marco Valerio, Fabio e Cleonte giunsero al Ludus proprio all’apice di quella grottesca commedia.
Trovarono Valentinus assediato da Marcia Rufo, bella, generosa, spregiudicata e non più in grado di soffocare la propria libidine.
La donna affondò la bocca su un cosciotto di agnello che il bel Valentinus teneva in mano e ne strappò un boccone; tenendolo stretto tra i denti aguzzi e voraci, lo tese al gladiatore.
Ridevano tutti. Anche Marco, suo malgrado, che si era avvicinato.
Valentinus addentò la succulenta preda e tese alla donna la coppa che reggeva nell’altra mano. Marcia tracannò e divenne del tutto indecente; il bel gladiatore, però, la respinse.
“Venere Tentatrice! Se cedessi alle tue lusinghe diventerei debole e pavido. E’ questo che vuoi, femmina lussuriosa?”
Marco Valerio, intanto, si guardava intorno.
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