Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schIavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.

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lunedì 28 luglio 2014

LA PROSTIBULA - La Prostituta

LA  PROSTIBULA  -  La Prostituta

LA PROSTIBULA - La prostituta

 Due donne dall’abbigliamento inequivocabile comparvero
sull’uscio: due prostitute, una  assai giovane e l’altra un po’ meno, ma ancora piacente. Quell’apparizione suscitò, come era prevedibile, un coro di commenti e di grasse esclamazioni:
“Metrobia, bel grappolo maturo, i tuoi chicchi ristorano ancora.”
“Anche quel grappolino acerbo lascia in bocca sapori di delizie.”
La più giovane, Mezia, non aveva più di tredici anni. Era molto graziosa; scura di occhi e di capelli, ma con una carnagione quasi pallida e levigata, morbida e rosata come una pesca. Alta e snella, non aveva, in verità, molta carne da esporre; per di più, sembrava timida e impacciata, cosa che rendeva i commenti ancora più salaci, considerata la  professione verso cui era stata avviata.
Metrobia, invece, la compagna, poteva avere intorno alla trentina. Procace e un volto gradevole, doveva conoscere bene il proprio mestiere poiché rispondeva per le rime agli irriverenti e sguaiati motteggi di cui era fatta oggetto ed era assolutamente in grado di tenere a freno quelli che si facevano troppo arditi. Era, inoltre, pronta a difendere da assalti troppo violenti la giovanissima compagna che era, chiaramente, sotto la sua protezione. Forse appartenevano allo stesso padrone.
Erano letteralmente coperte di gioielli: bracciali, fibule, anelli e catene, tutti rigorosamente in argento. Avevano la stessa acconciatura, raccolta e trattenuta da una fascia colorata sulla fronte ed indossavano  tuniche azzurre segmentate di rosso, in tessuto quasi trasparente, che lasciavano scoperte spalle e seni; sui
fianchi ostentavano una lunga apertura. Avanzarono nella stanza e
Metrobia si fermò davanti al tavolo di Marco.
“Marco Valerio!?... Sei proprio Marco Valerio!” esclamò.
“Metrobia!... E tu sei Metrobia!”
“Certo che sono io! Sono sempre io. E tu sei proprio Marco Valerio Flavio, il mio bel catulus!...”
“Il suo catulus!... Ah,ah,ah!...”sogghignarono tutti d’intorno.
Marco Valerio sorrideva: Metrobia era la prostituta con cui aveva fatto la sua prima esperienza sessuale.
“Io ho fatto di lui un uomo! - la donna si batte orgogliosamente il petto - Io ho reso uomo il nostro guerriero! Io gli ho insegnato a colpire sempre il bersaglio con la sua lancia.”
“Brava  Metrobia! Brava la nostra bella puttana! Ah,ah,ah...”
“Sei sempre la più troia di quante furono e sono. La migliore.”
“Puoi dirlo ben forte, caro il mio Fausto! - la donna si erse sul generoso busto - Metrobia non è come le vostre Calvie, Livie e Giulie, che si fanno schiavi e gladiatori… Metrobia cerca tribuni, cavalieri e campioni...”
“Ah,ah,ah! – rise Fausto - La prostibula ha i gusti della domina e la domina quelli della prostibula!”
“E che ridete, voi?... Ho il nome di tutti voi, qui! - si batté la fronte con una mano - Ho il nome di tutti voi anche su un papiro  e a fianco di ogni nome c’è un numero.... E sapete che cos’è quel numero? E’ il voto che ho dato a ognuno di voi! A te, Lacone, a te Vitruvio e anche a te, Fausto e... e a tanti altri ancora. Volete vederlo?... Ah,ah,ah! Come mai non sghignazzate più?... Vuoi sapere che voto ho dato a te, Fabio? A te, Lacone ho dato... ho dato... Volete saperlo?”
“Sì!Si!”  un coro;  “No! No!” la sola voce di Lacone.
“Non lo dico!... Non questa sera...  Ma dimmi, tu, mio bel tribuno, dove stai andando? Vai già via?”
“Mi duole assai, mia bella e dolce ninfa, non potermi beare del nettare  che c’è sulle tue labbra e sulla tua pelle, ma devo andare. Ehi, oste!...” chiamò Marco; l’oste si avvicinò con il conto.
“Sempre poeta, il mio aquilotto! Lo sai, Marco Valerio Flavio, che fra tutti tu sei stato il mio preferito? Lo sai che è tuo il voto più alto di quella lista - la donna gli gettò le braccia intorno al collo e lo baciò sulla bocca. - Non voglio nessun dono per questo bacio. E’ un dono che per una volta ho voluto fare io a qualcuno. E chi potevo scegliere se non te?”
“Sempre fortunato, il tribuno!” si levò un coro intorno a loro.
“La fortuna arride solo chi non la cerca. Perché non fai qualche dono anche a me, Metrobia?- ghignò Lacone -  Ci fai bella figura, se qualche volta la dai senza farti pagare!”
“Non a te, vecchio gallinaccio! Non a te! - disse ancora la prostituta staccandosi dal tribuno - Ma al mio catulus!”
Marco sorrise; pagò il conto e dette una moneta d’argento anche alla donna, che dopo una breve esitazione la fece sparire dentro il  corsetto, poi lasciò la ganea seguito dai compagni.

brano tratto da "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"

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mercoledì 23 luglio 2014

MORTE di NERONE




   In gran fretta lasciarono la Domus Aurea così come si trovavano.
Scalzo e in veste da camera, Nerone si gettò addosso e sul capo un mantello di dubbio colore, nascose la zazzera fiammante e si coprì la faccia con un fazzolettone.
Attraverso un passaggio segreto sbucarono in un’ansa dove trovarono ad attenderli quattro cavalli.
In strada nessuno pareva badare a loro e un lungo respiro allargò il petto di Nerone. Puntarono i cavalli in direzione del Clivius Suburbanus, non lontano dalla Porta Esquilina. Davanti a loro l’ammasso dei laterizi e di cataste di legname limitava la vista. Un lampo illuminò la scena e quasi li investì.
Il cavallo di Nerone ebbe uno scarto; il mantello gli scivolò dal capo e un uomo della Guardia Personale, un certo Missizio, fiaccola in mano, lo riconobbe. 
“Ave, Cesare!” salutò.
Nerone spronò il cavallo e così fecero gli altri.
“Ma quello è Cesare!... Sì! E’ proprio Cesare e l’altro era Faonte.” la voce del pretoriano li inseguì insieme al fracasso di un nuovo tuono che sconquassò l’aria caricandola di energia.
Al galoppo serrato percorsero le strette itinera, fuori le mura; le fiaccole agli angoli delle strade stentavano a bruciare  sotto la sferza della pioggia. La tempesta ruggiva, insaziata, ma non rallentò la corsa. Avanzarono lungo una strada di cipressi che finiva nella campagna aperta fino a un bosco di eriche; le colline di Cispio occupavano il fondo di quel paesaggio.
Dopo un paio di miglia furono in vista di un sentiero, tra la Via Salaria e la Nomentana, che sprofondava nella collina in un seno oscuro che Faonte chiamava Villa. Sorgeva su uno spiazzo sconvolto e rielaborato da frane, terremoti e alluvioni, tra macerie, rovine di antichi templi, statue monche e frammenti di capitelli.
Quando Faonte aveva acquistato quella proprietà l’aveva chiamata Stige e aveva riadattato il vecchio tempio sconsacrato, destinandolo a quel genere di riunioni orgiastiche a cui non si invitano che amici fidati.  Era un ritiro e un rifugio e vi si accedeva attraverso un’entrata segreta occultata da un canneto le cui radici affondavano in larghe pozzanghere.
“Non è per entrare vivo sottoterra!” scherzò Faonte.
“Qui sotto va bene anche da vivo.” stette allo scherzo Nerone.
Il liberto, che guidava quella processione, si voltò a guardarlo, fece l’atto di dire qualcosa, ma poi tacque e proseguì, infilandosi nello stretto cunicolo che si apriva davanti a loro.
Nerone lo seguì; si gettò la cappa sulle spalle e s’infilò nel budello, strisciando carponi fino a che non raggiunsero un vano.
Uno schiavo  venne loro incontro con una fiaccola accesa. Li fece entrare e prima di chiudere la porta dietro di sé, Faonte gli ordinò di recuperare i cavalli nel timore che qualcuno li avesse seguiti.
Lo schiavo si allontanò per eseguire gli ordini e il gruppo entrò. L’interno non era meno lugubre di fuori e forse era ancora più triste: uno stanzone in fondo al quale c’era un Larario; insieme ai Lari c’era anche una piccola statua di Nerone alla quale il liberto rendeva culto insieme agli antenati.
Nerone ebbe un sorriso nel posarvi lo sguardo.
Dall’atrio passarono direttamente nel tablino, un grande ambiente un po’ più confortevole.
Faonte accese le lucerne appese alle pareti e attizzò il fuoco di un enorme tripode di bronzo, poi mostrò all’ospite un lettuccio con sopra una coperta. Nerone vi si gettò sopra senza una parola, fradicio e tremante di pioggia e Faonte gli buttò addosso un mantello e gli chiese se volesse qualcosa.
Nerone rispose di aver sete e il liberto gli  portò acqua e pane.


“Passeremo sicuri la notte, se quel pretoriano non porterà qui quella folla impazzita. - disse Nerone, riferendosi all’uomo che lo aveva riconosciuto - Da qui potremo organizzare una fuga tra i Parti.  Vologese è mio amico e non mi negherà il suo aiuto né mi farà fare anticamera alla sua porta.”
Atte ed Epafrodite ascoltavano in silenzio e scuotevano il capo. La notte passò relativamente tranquilla e verso l’alba i due schiavi che Faonte aveva spedito in città giunsero con le ultime notizie.
“Il Senato ha decretato la morte di Cesare. - riferì uno dei due - Un gruppo di pretoriani sta venendo a prenderlo. Vivo, sono gli ordini!... Li abbiamo lasciati alla Porta Nomentana. Saranno qui fra poco. Non è tutto. – riprese dopo essersi schiarito la voce - Il Senato vuole che l’esecuzione capitale venga eseguita con tutte le pene  previste.”
“E... quali sono queste pene?” domandò Nerone.
“Quelle che già sai, Cesare.- interloquì Faonte - Dovrai essere trascinato nudo per le strade e battuto con le verghe fino a morirne e poi  sarai scaraventato giù dalle Scale Gemonie e...”
“Oh!... Basta così! Come hanno fatto a scoprire così presto questo nascondiglio? – lo interruppe -  Qualcuno ha tradito?...”
“No, Cesare. Non ci sono traditori, qui!”
“C’è ancora la  Auditrix.”   Nerone tentò un’ultima replica.
“Tardi! La tua Legione, Cesare, non è stata completata,”
“Ma come è possibile? Ho posto tanta cura, io personalmente, in quest’impresa. Non ho trascurato alcun particolare...”
“E’ stato proprio questo il tuo errore, Cesare! - lo interruppe l’altro -Troppa cura nei particolari e troppa poca cura nell’essenziale. Hai pensato al talco per gli atleti e ai truccatori per le amazzoni e hai trascurato armi e approvvigionamenti.  La Auditrixnon esiste!”
“Allora dovrò proprio morire?”
Cesare afferrò uno dei due pugnali che aveva portato con sé.
“Dovrai farlo, Cesare, se non vorrai patire torture e infamia e...”
“Oh, ma questa lama… sarà abbastanza tagliente? Saprà ben forare la carne e portarne via lo spirito? - l’uomo che era stata causa di tante morti reggeva il pugnale con mano malferma - Anubi dalla testa di Sciacallo non fa ancora cenno di salire sulla Barca Sacra. Il messaggero della Morte è ancora lontano.”  prese a recitare, incapace di uscire dal suo sogno di artista perfino nel momento estremo - Oh, Osiride,  Signore dell’Eternità. Ti saluto. Vengo a te ben provvisto. Dammi un posto nel Neter-Khert. Che la mia sistemazione sia durevole. Che io...”
“Nerone! Nerone! – lo sollecitò Atte - E’ ora di morire non di recitare. Coraggio, mio bene! Mostra di saper morire da Cesare!”
“Tu, mia Atte, tu mi vuoi bene… tu sola  mi sei rimasta fedele. Vieni con me, dunque! Amami anche nella morte. Amami come Arria amò il suo Peto.... Ah!... Donna mirabile e coraggiosa, che dette coraggio al suo uomo e si conficcò per prima la lama nella carne. Oh, Atte! Dimmi anche tu come Arria: Non dolet!  Io ti seguirò felice e con te affronterò la Palude Stige e l’Averno.”
Arria era la moglie di Cecina Peto, che nel 42 aveva partecipato alla congiura contro l’imperatore Claudio. Nell’apprendere della condanna del marito, si trafisse per prima poi porse il pugnale al marito dicendo: “Non fa male!”
“Oh, Cesare! - esclamò Atte scuotendo il capo – Potesse quello che mi chiedi evitare a te la morte, lo farei con gioia e l’avrei già fatto!... Io vivrò per impedire che il tuo corpo sia oltraggiato e profanato e per piangere sulla tua tomba.”
Nerone riprese in mano il pugnale; lo girò e rigirò tra le dita
“Questi rumori… da dove provengono questi rumori?”
“Sono loro.. gli uomini della Guardia Pretoriana che vengono a prenderti. Vuoi farti trovare ancora vivo?” disse Epafrodito.
“No! – Nerone scosse il capo, alla ricerca di quel coraggio che gli mancava; accostò la punta del pugnale alla gola, ma non riuscì a conficcarla nella carne - Scuotiti,  Nerone – provò a darsi coraggio - Non è da Nerone!.Bisogna essere svegli in tali frangenti. Vituperosa cosa è che io viva in questo modo!  Su! Date inizio ai lamenti funebri... Mi chiamano a morir la moglie, la madre e il padre!” riprese a recitare, sui versi dell’Edipo. I rumori si fecero più vicini. Non più suoni incerti e frammisti al frastuono della tempesta, ma distinti zoccoli di cavalli sui ciottoli, attutiti dalla pioggia e dal fango.
Equorumcursus velocibus pedibus ad meas aurespervenit...” continuò (Di piè veloci cavalli mi giunge alle orecchie il galoppo!) prima di trovare il coraggio di cacciarsi il pugnale in gola e con l’aiuto di Epafrodito farlo penetrare fino  al manico.
Sotto spinta vigorosa, la porta si spalancò nel mentre e sulla soglia comparve un centurione del Pretorio seguito da pretoriani; Nerone non era ancora spirato e quello volle beffeggiarlo.


“Vengo in tuo soccorso, Cesare!” disse fingendo di essere lì per aiutarlo e correndogli vicino col mantello per arrestare il flusso del sangue e Nerone trovò finalmente forza e dignità.
Haec fide est?” (E’ questa la fedelta?) disse, stando al gioco, e spirò.
Era l’alba del 9 giugno del 68 d.C.

martedì 22 luglio 2014

ARRUNZIA e TREBONIO






 ................
Marco e Lucio entrarono nella bettola.
  “Della buona biada per loro.” disse ancora il tribuno.
“La migliore, tribuno.” rispose l’oste.
Se l’esterno della locanda era tetro, l’interno, invece, riservava sorprese. Era spaziosa e ben illuminata, disseminata di tavole e panche e con una scala di legno che portava a quelli che dovevano essere i caenacula, al piano di sopra. Di fronte alla porta d’entrata, contro la parete di fondo, era accostato un lungo bancone sul quale poggiavano coppe, tazze e vassoi pieni o vuoti.
C’era una donna seduta dietro quel banco e guardava tutti con aria sorniona. Non più giovane, grassa e voluminosa, sedeva su uno sgabello troppo stretto da cui  debordava abbondantemente. Squadrò anche i due nuovi arrivati da capo a piedi, prima di porgere loro il suo saluto.
Sulla destra ardeva un camino che oltre a rischiarare serviva per arrostire salsicce e un cosciotto di capretto le cui carni sfrigolanti inondavano l’ambiente di un delizioso profumino; altra luce arrivava da torce appese al muro e da una lampada che veniva giù dal soffitto. Lungo la parete sinistra correvano due file di mensole piene di vasellame; nell’angolo, una nicchia custodiva i Lari; nell’angolo opposto, in una seconda nicchia, avevano preso posto alcuni oggetti che Marco riconobbe  essere appartenuti a Nerone: un dono di Cesare custodito come una reliquia!
Marco e Lucio sedettero al tavolo vicino alle scale e Lucio esordì:
“E’ vero che qui si serve dell’ottimo cinghiale alla salsa di pinoli.”
L’oste si avvicinò al tavolo. La sua faccia larga, rubiconda e piatta si distese in uno sfolgorante sorriso. Grasso e massiccio, tanto da doversi girare di lato per circolare tra i tavoli, era una  montagna di carne portata con allegra disinvoltura. Odorava di vino, olio e sudore.
“E’ quello che sto aspettando da un pezzo anch’io.- esordì qualcuno seduto a un tavolo - Forse quel cinghiale non è stato ancora cacciato!... Salute, tribuno Marco Valerio e anche a te che non conosco, legionario!”
Marco si voltò a guardarlo.
Labbra grosse, volto rubicondo, occhio appannato, indice di un trasporto per il Falerno, l’uomo aveva ancora il braccio levato in atto di saluto.
“Salute a te, Lacone!” rispose Marco, intanto che la ostessa, lasciato il bancone si avvicinava premurosa.
“La buona cucina vuole il suo tempo! – disse la donna - Per gustare il “cinghiale alla salsa di pinoli” di Arrunzia Claudia non bisogna avere premura. Perciò, torna ai tuoi dadi e aspetta.”
Arrunzia Claudia. La chiamavano così, per via del suo passo claudicante, ma avrebbero potuto bene affibbiarle anche il soprannome di Arrunzia Crassa, tanto era grossa e massiccia.
Il suo aspetto richiamava più quello di un atleta che di una donna; più simile a Ercole che a Diana. Ad azzopparla era stata l’incornata di un toro nella villa rustica di un patrizio, dove era stata condotta schiava dalla Siria e dove, proprio per quel suo aspetto insolito per una donna, era stata respinta e dileggiata. Perfino al mercato degli schiavi, dove il padrone aveva finito per metterla in vendita, era stata disdegnata quasi da tutti.
Quasi da tutti, ma non da tutti. Non da Metrobio, che aveva visto in quell’Ercole al femminile, dalle spalle quadrate, le braccia muscolose, lo sguardo mansueto come quello di un bove, un ottimo investimento per sé e per l’attività che intendeva aprire.
Metrobio era di quelli che non disdegnavano il lavoro e  a Roma quella dell’oste era una delle attività più remunerative per chi avesse avuto voglia di lavorare e fosse a conoscenza di qualche buona ricetta. Possibilmente esotica!
Arrunzia possedeva quelle qualità e per Metrobio acquistarla era stato un ottimo affare. Affrancarla e poi  sposarla, era stato un affare ancora maggiore: Claudia conosceva  certe ricette segrete e afrodisiache, tali da richiamare avventori di ogni sesso ed età, come il latte appena munto attrae le mosche.
Claudia si era attaccata al marito-padrone con la dedizione assoluta di un cane fedele, ma, per ragioni imperscrutabili, anche l’oste aveva finito per affezionarsi a lei con la stessa dedizione.  Così, senza nemmeno rendersene conto, Metrobio aveva finito per ritrovarsi appese al proprio collo quelle stesse catene che aveva messo al collo di lei, fino al ribaltamento totale della situazione, che vedeva Arrunzia padrona di Metrobio. Una padrona affettuosa e garbata, per la verità, tanto che la gente cominciò a chiamarli Bauci e Filemone, come i due della leggenda del Diluvio, risparmiati da  Giove e trasformati  in tiglio e  quercia.
La porta che si apriva sotto spinta vigorosa e la figura di Fabio che  faceva il suo ingresso seguito dal suo optio Ottavio, riassorbì l’attenzione di Marco, che si alzò per andare incontro al suo centurione; anche l’oste, grondante sudore, si girò verso l’uscio.
“Benvenuto, centurione. - lo salutò scorgendogli tra le mani la vitis, l’insegna del grado- Giove ti tenga sempre in buona salute!”
“A te invece, oste, - rispose con un sorriso Fabio - non occorre augurare miglior salute. Più grasso di come sei, scoppieresti.”
Risero tutti, anche Metrobio, cui la risata gorgogliava  allegra e sonora nella pancia come in un tino di vino in fermentazione.
“Del buon vino, oste.”  interloquì Ottavio alle spalle di Fabio.
I due si accostarono al tavolo di Marco, dove presero posto.
“Vi servo subito!... A voi, tribuni e centurioni, il vino migliore della cantina di questa ganea... Ehi!...Ehi, Ventidia! – urlò l’oste in direzione della schiavetta che seguiva come un’ombra la sua padrona - Piccola infingarda, corri in cantina e prendi quel vecchio Aglianico. Bada a non combinare pasticci e torna subito!”
Ventidia si allontanò verso la porticina del sottoscala.
Ventidia era la schiava trace appena acquistata. Aveva venti anni, ma ne mostrava di meno; piccola e grassottella, pelle bianca e rosea, volto paffuto come una pagnotta appena sfornata, capelli biondi e raccolti, era molto graziosa e si muoveva per la stanza  volenterosa, vezzeggiata e richiamata da tutti. E lei rispondeva a tutti con un sorriso radioso.
“E’ un vino che resuscita i morti, quello che voglio servirvi - l’oste  tornò da Marco e i suoi amici con quattro coppe linde e lucenti -.. se quella piccola sfaticata non tarda ancora… ma l’attesa, vedrete...”
(continua)

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Pubblicato il 06/06/2013 23.01.34. Stato: online - visualizzazioni:  855  -  Commenti:  13
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cancella commentopubblicato il 07/06/2013 0.31.01
vannibravi, ha scritto: Racconto delizioso nel quale scopro MariaPace come maestra dell''eros. Chissà come ridevi delle dilettantesche chiacchierate fra me e l''amico A. - Ciao. Buonanotte. VB :-)
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 1.19.27
vannibravi, ha scritto: Comincio a comprendere, non solo che hai scritto molto, ma anche che provi una grande passione per la scrittura. E che è difficile trovare un genere letterario che ti sia estraneo! VB
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 1.49.26
amensa, ha scritto: perfetto Mariapace, hai saputo esprimere proprio quanto cercavo di sostenere ....... l''eros dal punto di vista femminile. non è solo l''assenza di menzione di parti intime o azioni esplicite che contraddistinguono questo modo di esprimersi, ma è il saper comunicare l''emozione, il "sentito" della persona. Quanto comunichi è più l''interno della giovane, che non l''esterno, il corpo, presso solo a pretesto per narrare il progredire dell''azione. Direi che non era necessario lo dicessi ...... si capisce perfettamente che questo brano è scritto da una donna, o almeno, io l''ho riconosciuto dalle prime battute. Meglio di qualsiasi spiegazione, ci hai fatto proprio un bel "disegnino". Complimenti. Andrea
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 2.10.35
amensa, ha scritto: ps. forse un''unica nota finale ....... tornando alla fisicità dell''evento, forse non è corretto "Giacquero, l''una sull''altro, per riemergere storditi e appagati." ma "Giacquero, l''uno sull''altra, per riemergere storditi e appagati." che mi sembra concluda meglio il quadro. o sbaglio ?
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 9.46.27
mariapace2010, ha scritto: ciao, Vanni... cosa dire? Come sempre sei troppo generoso nei giudizi, però, non lo nascondo... mi fanno lieta.... quanto i vari generi letterari, sostanzialmente sono tre, quelli in cui mi cimento: storico, fantasy, ambiente... in nessuno dei tre, però, manca quel pizzico di sentimento che addolcisce un po'' la vita... ciao, coiao
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 9.48.46
mariapace2010, ha scritto: ... ancora una cosa, Vanni... lungi dal farmi ridere o sorridere, le dispute fra te e Andrea sono stimolanti per chi, come me, sfioora appena quest''aspetto del sentimento... un caro saluto da estendere ad Alda.
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 10.00.56
mariapace2010, ha scritto: ciao, Andrea... il tuo giudizio su quello che scrivo è davvero molto lusinghiero e te ne sono grata... quanto alla nota finale...sì!... in effetti la "o" andrebbe al posto della "a"... e se ti invitassi a considerarlo un ultimo gesto "tutto femminile, ma assecondato"?... forse dovrei aggiungere che "dopo" lei non vorrebbe essere "allontanata"... A proposito, Andrea, ti ho spedito mail tramite ewriter... Ah... io sono lucana, della provincia di Potenza, trapiantata a Torino... ciao, ciao un saluto affettuoso.
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 10.10.30
mariapace2010, ha scritto: ciao, Andrea, ciao Vanni... una pazzia: ho fatto come dice Vanni e cioè posizionato il brano nella categoria eros invece che amore... staremo a vedere cosa succede, prima di riportarlo nella sua giusta posizione.. ciao, ciao, amici.
cancella commentopubblicato il 07/06/2013 10.35.25
amensa, ha scritto: @ MariaPace devi aver mandato il tuo messaggio a qualcun altro, perchè io non ho ricevuto nulla ..... prova a rispedirlo io son "amensa" attendo con ansia. Ciao . andrea
cancella commentopubblicato il 11/06/2013 4.44.59
amensa, ha scritto: se vuoi un confronto con "una prima volta" al maschile, l''ho giusto scritta stanotte. buon tutto. Andrea
cancella commentopubblicato il 22/06/2013 7.59.15
mariapace2010, ha scritto: ciao, Andrea... amico mio, ancora una volta confermiamo le nostre opinioni e posizioni... ciao, ciao
cancella commentopubblicato il 28/11/2013 16.06.37
Raimondo64, ha scritto: Ciao Maria...Ti ringrazio ancora x il gentile commento alla mia Opera letteraria...In quando alla frase suddetta ''''giacquero l''una sull''altro'''',la considero ''''politicamente corretta'''',rende tangibile la soggettiva di Lei...In pratica e'' la rivelazione che a condurre la ''''danza sensuale'''' e'' sempre la donna...Io stesso tempo fa usai questa ''''visualizzazione Semantica in una mia Lirica,spesso mi immedesimo nei panni della parte femminile,se non lo facessi non potrei rendere le emozioni sul foglio...Apprezzo la tua fatica compositiva,non capita spesso di trovare uno scrittore del tuo livello...Vedo che fai pubblicita'' all''amaro lucano,ahah Una Lucana a Torino...Interessante,come lo e'' anche il fatto che siamo presenti entrambi su Lulu''.com con le nostre Creazioni...Voto 7
cancella commentopubblicato il 29/11/2013 15.53.32
mariapace2010, ha scritto: ciao Raimondo... sei molto gentile a definirmi scrittore d''alto livello anche se, in realtà, sono solo una a cui piace scrivere... grazie del voto... La tua osservazione sulla frase finale del mio elaborato mi piace molto, perché è in completa sintonia con il mio pensiero ed é quello che cercavo di dire ad Amensa... il sesso, per l''uomo finisce con l''atto fisico, ma per la donna non é così... la donna non vorrebbe mai essere allontanata "dopo" o lasciata scivolar via dal letto... Sì! Sì! hai proprio ragione: una lucana a Torino!... Buon pomeriggio e alla prossima, Maria

LAMORE e L'ESTASI

immagine di Lance Manuel


............
Si allontanarono verso l’interno della casa, la mente ancora occupata dal pensiero della sorte della liberta di Nerone, ma con nuove prospettive di gioia e felicità. Si ritrovarono da soli e Lucilla, coperta unicamente dallo sguardo innamorato di Marco.
Il giovane le si avvicinò piano. Lentamente. Assaporando l’attimo meravigliosamente prossimo di un frutto da cogliere. La guardava con tutta la sessualità accesa, l’olfatto eccitato: l’aveva desiderata fisicamente fin dal loro primo incontro sul Palatino. Un desiderio che lo aveva quasi ossessionato e spinto altrove: un desiderio mai soddisfatto con alcuna altra donna, però. Un desiderio sempre più potente. Più di ogni altra sensazione ed eguagliato solamente dall’amore che, per lui, era sfaccettatura dello stesso sentimento.
Anche lei lo guardava. A piedi nudi, le mani tremanti che reggevano un telo di lino e con dentro gli occhi qualcosa che Marco non capiva. Le fu vicino. Lei continuava a fissarlo con “quello” sguardo. Lui continuò ad accarezzarle le spalle nude poi le cinse la schiena; il desiderio gli premeva dentro prepotente.
Lucilla si sollevò sulla punta dei piedi; con un braccio gli circondò il collo e con l’altro continuò a reggere il lembo del telo che copriva ormai così poco del suo corpo, ma nascondeva tutto il suo pudore che brillava intenso, rannicchiato negli occhi azzurri; Marco tremava d’emozione, mentre si chinava a cercare quella curva eccitante  tra la nuca e il collo; l’anima e i sensi, imprigionati dall’odore di lei.
“Marco, io..” cominciò lei con le palpebre abbassate.
Marco comprese.
“Hai paura? - domandò - No!... Non devi averne, tesoro mio. L’amore è una cosa dolcissima!” la rassicurò rituffandosi nel suo sguardo e prendendo possesso dei suoi sensi e del suo pudore. Abbassò il capo e la bocca affondò ghiotta sulla nuca e sul capo; il telo scivolò a terra; il tripode, poco discosto, ardeva crepitando. Con le mani la percorse: la schiena, i fianchi, la vita. Si insinuò tra curve e pieghe. Lentamente. Leggermente. Dolcemente.
Lei sentiva liquido fuoco vivo attraversarla tutta e l’eccitazione consumarla: il contatto con la diversità di lui. Così dura. Così terrificantemente eccitante. Poi la bocca di lui, che scivolava lungo il collo, la gola per fermarsi sul seno: “Oh!...” gemette.
Vinto da quella resa voluttuosa e dall’ardore del proprio temperamento, Marco piegò un ginocchio e la trascinò a terra con sé; con l’altro ginocchio, piegato, la sostenne; il soffio ansante delle sue labbra sfiorava i capelli di lei.
Lucilla cercò di trattenere gli ultimi brandelli di pudore, ma lui sorrise con inusitata dolcezza in tanta eccitazione. Prese la mano di lei e ne guidò le dita tremanti sotto la tunica slacciata. La pelle eccitata fremette. La bocca, sempre affondata nella dolcissima curva tra collo e spalla, impazzì di piacere. Premette più forte.
Un brivido percorse Lucilla. Così profondo da darle la sensazione di perdere conoscenza e vacillare. La sua mano smise di carezzarlo; le dita  si contrassero, le unghia quasi si conficcarono nella schiena di lui. Si accorse di essere distesa per terra, al bordo del letto. Supina.
Marco, a torso nudo, era sopra di lei. La tunica di lui era  per terra accanto al suo telo di lino, ma lei ne vedeva solo un lembo, segmentato di rosso. Vedeva l’aria rilucere del riflesso del tripode e il bel volto di lui trasfigurato dall’eccitazione e dalla passione. Chiuse gli occhi e sentì le labbra di lui che cercavano la sua bocca; le sue mani continuavano a percorrerla.  Rispose al bacio.
Nuovamente Marco prese la sua mano per guidarla su di sè. Nuovamente lei fremette, mentre imparava a conoscere quel corpo che amava e in cui era concentrato tutto il mondo, che andava scomparendo intorno a lei: sempre più piccolo e stretto, fino a ridursi a quel solo essere adorato.  Le pareva, mentre con le dita scorreva e scopriva la pelle eccitata di lui, i rigonfiamenti, i muscoli, gli incavi, di conoscerlo già: quante volte aveva accarezzato quel corpo facendo l’amore con lui con la fantasia.
Un’altalena di emozioni, un groviglio di sensazioni che elevava e inabissava e i respiri ora corti, ora lunghi. Pian piano i respiri si fecero calmi, placidi. Fino a scivolare all’unisono lungo un tempo immobile. Come trasognata, Lucilla sentiva il capo di lui fremere contro la sua spalla, il suo petto ansante, le sue mani sulle gambe. E Marco sentiva  le braccia di lei intorno al busto, le gambe avvinghiate alle sue, le dita accarezzargli dolcemente la schiena. Ancora cercò le labbra di lei, poi, quando le labbra la lasciarono per saziarsi altrove, le vide reclinare il capo dolcemente di lato. Completamente arresa. Completamente abBandonata. Completamente rilassata. Rilassati i muscoli delle gambe, rilassato il grembo, rilassata la pelle intorno all’inguine.
Un   dolore acuto le strappò    un gemito, poi     una sensazione di
sconfinato piacere che mutò in eccitato languore i gemiti di dolore e che la trasportò in alto, verso vette sconosciute e immacolate, in un tempo immobile, insieme a lui, in dimensione irreale e magica.
Giacquero, l’una sull’altro, per riemergere storditi e appagati.
(CONTINUA)

brano tratto da    "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"

chi volesse seguirne le vicende può contattare l'Autore per una copia AUTOGRAFATA
mariapace2010@gmail.com

NELL'ARENA



............................
Un nuovo un ruggito riempì l’aria, potente e poderoso più che prima: un enorme leone africano attraversò trotterellando l’arena, sbucando di tra gli alberi di uno dei boschetti. Sugli spalti, intanto, una pioggia di palline stava investendo la folla; ogni pallina recava un numero abbinato a un dono: vesti, vasi, cesti di frutta, la cui conquista stava provocando gran confusione.
Dal  Pulvinar, Cesare seguiva la rissa divertito, puntando qua e là il monocolo; la sua attenzione, però, tornò all’arena e al cancello del terzo arco dell’ Oppidum dove un giovane stava ascoltando gli ultimi consigli del suo lanista.
Era molto giovane, quindici anni, forse meno. Quello doveva essere il suo battesimo dell’arena e i suggerimenti di Crescens, il suo lanista, potevano salvargli la vita. Egli li ascoltava attento, facendo ripetuti cenni di assenso col capo e alla fine si staccò dal cancello e andò incontro al leone, fermo nell’arena.

Alto e slanciato, i capelli lunghi e ricci, arruffati come serpentelli, sembrava un fanciullo, la qual cosa  parve eccitare maggiormente la folla che prese ad ondeggiare, agitando braccia e teste.
Il leone emise un ruggito, tale da far rabbrividire gli spettatori più vicini alla cancellata di protezione. Gli animi si accesero.
“Coraggio! Afferra per la coda quel gattone rosso e peloso.” Urlavano dagli spalti.
Il  ragazzo stava immobile al suo posto, come pietrificato.
“Hai paura?... Sei tu, quello con il pugnale… non quel povero gattone. Ah,ah,ah.. - rideva la folla, con la proterva incoscienza di chi agisce al riparo dal pericolo - Sveglia quel gattone in letargo!”
Anche il leone era sempre fermo al suo posto e continuava a ruggire, ma accompagnava i ruggiti con lunghi sbadigli.
Il ragazzo si mosse, cercando di attirarne l’attenzione, ma la belva pareva quasi ignorarne la presenza e continuava a sbadigliare e lisciarsi le zampe con la lunga ruvida lingua rosea.
“Ah.ah! – continuava a sghignazzare - Chi ha mandato giù quel poppante?”
“Sentitelo come ruggisce… sembra lui il leone! Ah,ah,ah...”
Qualcuno cominciò a lanciare oggetti di sotto.
Un sasso colpì il leone, che sollevò l’enorme testa e fiutò l’aria: si era finalmente accorto della presenza del giovane. Tornò a spalancare la bocca, ma non per sbadigliare. Fauci e denti aguzzi, affilati e lunghi oltre ogni misura, un corpo che la natura gli aveva fornito al solo fine predatorio, la belva scattò in avanti e atterrò il ragazzo; il pugnale, abbandonato al suolo, lanciava bagliori.
Un roco respiro, che nessuno poteva udire, si alzò dalla fossa; grida di disappunto si levarono dagli spalti: non per la sorte del ragazzo, ma per la brevità del combattimento.


Qualcuno, però, rifiutò quell’epilogo: Valentinus, il grande gladiatore. Si staccò dai cancelli e piombò nell’arena sottovento e alle spalle del leone; pochi colpi bene assestati e gli sottrasse  la troppo facile preda.
“Valentinus! Valentinus!” urlava la folla andata in visibilio.
Valentinus si chinò sul  ragazzo, ferito gravemente.
Anche Marco Valerio dirottò su di lui l’attenzione: la sorte di Lucilla era legata all’incolumità di quel gladiatore.
“Un toro per Valentinus!” continuava la massa urlante.
Crescens, il lanista dell’atleta, gongolava e la folla fu accontentata.
La grata di ferro della settima porta dell’oppidum si sollevò lentamente; nel vano comparve la sagoma scura di un toro, intanto che alcuni inservienti portavano via il ragazzo: per quel giorno la morte lo aveva ignorato.
Nero come    la pece, forte e imponente,       il toro si staccò dalla
inferriata, trotterellando agile e minaccioso. Si fermò, fatti pochi passi, sbuffando e scalpitando.  Apparteneva a una razza diversa da quelle che si vedevano di solito negli allevamenti della provincia: una montagna di muscoli guizzanti e nervosi sotto un manto di lucido pelo nero. Aveva unghioni color ardesia, sincipite prominente e lunghe corna appuntite e rovesciate verso il basso: corna viste solo sul capo del dio egiziano Hapy, nel Tempio di Serapide, in Campo Marzio.  La coda flagellava l’aria e le narici la fiutavano. Avanzò ancora di qualche passo. Si fermò nuovamente, scuotendo l’enorme testa e come accecato dal riverbero che saliva dall’arena. Sollevò il muso; le froge fumavano.
Alto, bello, le proporzioni fisiche straordinarie, la pelle dorata e scurita per esposizione al sole, l’aspetto quasi selvaggio, Valentinus si mosse, concentrando su di sé ogni sguardo.
La lunga, singolare capigliatura bionda raccolta in treccine e trattenuta da un cordino di pelle, l’espressione ostinata del volto dai tratti energici e un po’ schiacciati, gli occhi chiari e glaciali, le sopracciglia congiunte, gli conferivano un aspetto terribile.
Lo sguardo scintillava nel giorno che avanzava veloce.
Stagliato contro un cielo terso e accecante, la figura salda e composta pareva quasi trasfigurarsi. Simile ad un semidio.
Al collo portava un torqes d’oro fiammante, un collare di metallo ritorto e senza chiusura, sottile alle estremità, che girava a spirale intorno al collo. Una larga striscia di pelle ornata di placche dorate gli fasciava il poderoso torace; schinieri in bronzo con decorazioni figurate gli proteggevano le gambe e una striscia di cuoio intorno al braccio destra costituivano il suo abbigliamento.
La coda del toro continuava a flagellare l’aria e le narici a fiutarla: aveva   avvertito      la presenza del giovane e gli occhi scrutavano
d’intorno alla sua ricerca.
Il galate agitò un braccio per richiamare la sua attenzione.
L’animale riprese a trotterellare, ma si  fermò ancora e sollevò la testa e il muso, poi un tuono partì da quella montagna  scura, come da una gola cavernosa e riverberò nell’arena.
Il toro caricò.
Valentinus lo attese fermo al suo posto; si scansò solo all’ultimo
secondo con un formidabile colpo di reni e l’animale gli passò accanto come una valanga.
Nell’impeto della corsa, il toro proseguì per qualche metro, poi si fermò, si girò e si preparò a una seconda carica; il terreno rimbombava sotto lo zoccolo sinistro che scalpitava furioso.
Nell’arena e sugli spalti non volava una mosca.
Valentinus cacciò un urlo spaventoso, che disorientò il toro e si trascinò dietro quello della folla eccitata.

La folla amava il suo idolo. La folla riconosceva il suo valore, il suo coraggio e anche qualcosa di incondivisibile, che lo rendeva diverso da loro.  La folla amava e osannava  il suo idolo perché la sua figura, da sola, riempiva quella fossa in cui  lo sapeva destinato a restare.  Non quel giorno, forse, ma di sicuro un giorno.
Il toro tornò a caricare.
Valentinus questa volta non lo attese. Gli andò incontro con l’arma tesa in avanti, più corta delle lunghissime corna dell’animale  e con un colpo magistrale gliela conficcò proprio nel mezzo. Quando si girò, però, due vistose cicatrici gli segnavano il petto, là dove s’erano conficcate le corna del toro.
Marco Valerio, nel palco, ebbe un sussulto di contrarietà.
Il toro piegò le zampe anteriori, abbassò il capo e il muso toccò terra; l’enorme montagna pelosa ebbe un tremito, poi si accasciò.
Il galate si chinò, estrasse l’arma e si voltò a salutare la folla poi si avviò a passo lento verso le cancellate dell’ oppidum.
Nell’arena intanto si preparava la scenografia per un nuovo gioco: la Battaglia di Cannes, che vedeva impegnati una cinquantina di elefanti e un migliaio di uomini divisi in due schieramenti, Il combattimento lasciò sul terreno numerosi morti e feriti.
Seguì un’altra caccia, uomini contro fiere, in una fantasmagoria di sangue e violenze che si esaurì insieme a qualche sbadiglio.



Era quasi mezzogiorno quando si consumò la damnatio ad bestias: le esecuzioni capitali dei condannati.
Si cominciò con un gruppo di ninfe che insieme ad una Diana Cacciatrice facevano il bagno in un ameno laghetto; in un altro angolo dell’arena già ardeva un’enorme catasta di legna per la pira
di Patroclo, l’amico del cuore di Achille, l’eroe acheo e appena più discosto, dal folto di una piccola selva apparve la nera sagoma di un toro su cui dorso era stata legata una sventurata Dirce.
I cancelli delle arcate centrali dell’ Oppidum si spalancarono tutti insieme per lasciar passare una intera moltitudine di persone.
Erano in gruppi. Il più numeroso, una dozzina, indossava tuniche segmentate alla greca e ghirlande d’alloro in testa..
Furono salutati con un solo grido:  “I cristiani! I cristiani!”
Un gigantesco Ulisse, un nubiano armato di un arco di straordinarie dimensioni e di una grande faretra piena di frecce,  era ad attenderli al centro dell’arena insieme a un giovane Telemaco, anch’egli con arco e frecce.
brano tratto dl libro  LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses

di   Maria  PACE
editore MONTECOVELLO  EDITRICE

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LA DECIMA LEGIONE - Marco il Tribuno



Maria Pace
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3 giorni fa
 
    Claudio Pirillo
    Claudio Pirillo
    Claudio Pirillo "Bravissima, Maria. Scrivere sulla gloriosa DECIMA "Fretensis" non è impresa da poco, neppure "romanzando". Auguri di ogni splendido successo, carissima. " 2 ore fa

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A TAVOLA con gli ANTICHI ROMANI







................
“Libi tibi – Marco aprì il banchetto e versò gocce di vino in onore degli Dei – Bacco consenta numerose coppe!”
Una schiava gli pose sul capo una corona di foglie e fiori che legò con un nastro dietro la nuca; anche lei portava sul capo rose e foglie intrecciate: un grazioso ornamento che doveva tenere lontano la sbornia. Nessuno ci credeva, naturalmente, ma quelle ghirlande appagavano il senso estetico e tanto bastava.
Tutti i convitati ebbero le loro ghirlande e tutti furono pronti a “lavorare di mascella”, come, poco prosaicamente, diceva Lucilio.
Arrivarono le prime portate: uova servite con molluschi e frutta ripiena; seguirono altri antipasti e un arrosto di vitello con funghi stufati al coriandolo. Fu la volta di galletti alla salsa di laserpizio, dall’odore nauseabondo, ma di straordinario successo sulle tavole dei più ricchi. Il vino non mancò: tante coppe da mandare giù; tante quante erano le lettere contenute nel nome dell’ospite.
“I tuoi cuochi sono veramente bravi, Marco.” esordì Silone.
“Ne sono lusingato. – rispose Marco – Hanno voluto compiacere questo povero soldato che dei piaceri della tavola non aveva più il ricordo. Assaggia questo.” disse e spedì al tavolo del liberto un cosciotto d’oca.
Affrancato attraverso una congrua manumissio, Silone era riuscito con spirito di iniziativa a farsi un buon patrimonio, ma era rimasto fedele e assiduo frequentatore della casa dell’antico padrone.

Pur non avendo diritti politici, i liberti erano uomini liberi a tutti gli effetti. Nerone e soprattutto Claudio, a costoro avevano affidato importanti cariche amministrative, tanto da formare un vero corteggio intorno alla figura del sovrano. Erano potenti e influenti; potenti al punto da permettersi di trattare i padroni con irriverenza e perfino arroganza, tanto da costringere il Senato a discutere di provvedimenti da adottare.
“Non avete ancora assaggiato questo porcellum hortolanum. – interloquì il senatore Cimbro Appio, buongustaio e frequentatore abituale della tavola di Marco, indicando il grande vassoio che due schiavi stavano appoggiando al tavolino centrale attorno a cui erano collocati i lettini – Verdure di prima scelta e liquamen di prima qualità, per questo porcello fatto ingrassare al punto giusto!”
Liquamen, salsa tipica, ottenuta dalla macerazione del pesce.
Con un cenno Marco ordinò di servirglielo per primo e Cimbro non si fece pregare e poi trasferì una parte dal suo piatto a quello di un giovane seduto su uno sgabello ai piedi del suo lettino.
“Prendi, Crispino e dimmi il tuo parere su questa salsa deliziosa.”
Crispino, giovane poeta, era giunto a Roma da poco con una lettera di raccomandazione per farsi annoverare nella clientela della famiglia Appia.
C’erano altri giovani seduti su sgabelli, l’effeminato Fausto, l’insofferente Sorano, l’astuto Casperio e ancora altri, tutti clienti al seguito dei patroni.
“Anche il vino è ottimo!”
Lucilio sollevò la coppa poi la tese alla schiava, una giovane tracia assai avvenente, bionda e procace, accorsa a sistemargli sul lettino la augusti clavia, la veste che con l’ anulus aureus e il cavallo, costituivano il distintivo dell’Ordine Equestre di cui faceva parte. Familiarizzare con le schiave era d’obbligo durante i festini ed era un piacere a cui il filosofo non avrebbe mai rinunciato.
“Orsù, belle. – diceva, rivelandosi anche seguace di Epicuro – Correte tra le braccia di Lucilio e scacciate le sue malinconie.”
Un invito che compiacenti schiave non si fecero ripetere: quelle non impegnate a vezzeggiare Milos, l’ospite più celebrato, letteralmente soffocato dalle loro effusioni.
Marco Valerio, che da buon padrone di casa si preoccupava che nulla mancasse a ognuno dei suoi ospiti, sorrideva indulgente.
“L’amico Lucilio- pensava- deve aver proprio ragione: quel trace è proprio un “puellarum suspirium”. Varrà la pena, forse, fare il tifo per lui ai giochi gladiatori.”
Quasi gli avesse letto nel pensiero, una delle ancelle domandò, chinandosi a riempire la coppa tesa del bel gladiatore:
“Dicono che affronterai il toro più cattivo che si sia mai visto.”
“Sarà una sorpresa.- rispose per lui il lanista – Ho promesso a Cesare uno spettacolo che resterà negli annali gladiatori.”
Crescens era il lanista più noto non solo a Roma, ma in tutto l’impero. Gli uomini della sua “scuderia” erano i migliori atleti. Per di più, era anche onesto. Non come certi impresari che promettevano campioni ed offrivano brocchi. Nessuno dei munera, committenti dei giochi, si era lagnato mai dei suoi atleti.
“Non finisca come Proculo, incornato dal suo primo toro! – interloquì Cimbro, tracannando con indifferenza – Sia la mia ultima coppa se mento affermando che è il miglior vino che il mio palato abbia gustato mai. Neanche il vino di Bacco è così inebriante!”
Cimbro apparteneva a quel patriziato, l’hordo senatorius. che, pur restando il ceto più elevato tra i cittadini di Roma, era avviato verso una progressiva decadenza.
“Vuoi suscitare l’ira di Bacco?” lo redarguì qualcuno.
”Oh, no… no! Quand’anche sia convinto che se gli Dei tutti precipitassero dall’Olimpo solo Bacco vi resterebbe…”
“Cimbro! Cimbro! – lo ammonì Lucilio – Non burlarti degli Dei!”
“Per Nettuno! – il vino scioglieva la lingua – Non voglio sfidare gli Dei, né burlarmi di loro. Voglio invece invitarli a questo banchetto. Più che nettare è questo vino!.. Ne convieni anche tu, Calpurnia?”
“Oh, Cimbro! – ridacchiò la donna – Sei irriverente con gli Dei!”
“E perché mai? – insisté quello – Ti sei mai chiesto perché i nostri padri abbiano inventato un Dio unico per ladri e mercanti?”
“Cimbro! Cimbro!… “
Non più giovane, giunonica, le labbra petulanti e strette, la donna cercò di ammansirlo.
Vestiva con ricercatezza ed eleganza; sulla tunica di porpora ricamata in oro ostentava una palla, un mantello verde di preziosa sete. Era sommersa da gioielli e ammantata di un profumo dolciastro e penetrante. Sporgendosi per prendere un fico da un cesto fuori del circolo dei letti, raccolse la lunga collana che le pendeva dal collo, un raffinatissimo gioiello depredato in terra lontana: Dacia, forse, Dalmazia o Bretagna.
“Vengono dalla Giudea questi fichi?” domandò a Marco Valerio, abbandonandosi languida sul petto del compagno.
“Sono molto gustosi.” Marco assentì col capo; guardandola pensò che da quando la moda permetteva alle donne di prender posto sdraiate accanto agli uomini invece che sedute, i banchetti finivano sempre per trasformarsi in orge. (continua)




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LA DECIMA LEGIONE

                                   
LA DECIMA LEGIONE – Panem et Circenses
Corre l’anno 882/883, il 68/69 dell’era cristiana: l’anno più lungo di tutta la storia dell’Antica Roma, che vede la morte cruenta di quattro imperatori.
Anno di violenze e congiure, è anche il momento in cui il Cristianesimo, approdato a Roma insieme a molti altri culti orientali, mette i primi germogli, pur tra sospetti, speranze e persecuzioni.
Marco Valerio, tribuno della Legione X, di stanza in Giudea, è inviato a Roma dal suo superiore, il generale Vespasiano, per valutare e riferire sulla situazione: l’Urbe sta precipitando in quella che sarà chiamata: Anarchia Imperiale.
Costretto l’imperatore Nerone al suicidio, in ogni parte dell’Impero – Spagna, Giudea, Germania – le Legioni premono per affidare la porpora imperiale al proprio Generale.
Marco Valerio si troverà coinvolto in vicende che avranno come protagonisti gladiatori che si sfidano nelle arene, pretoriani e senatori pronti a passar da una corrente politica all’altra, liberti arroganti, filosofi, schiavi, vestali, prostitute, giovanissimi banditi…
Intreccerà una bella storia d’amore con Lucilla, scampata alla carneficina seguita alla congiura Pisone contro Nerone, figlia di uno dei congiurati; per lei, Marco Valerio arriverà perfino a sfidare Cesare, di cui da ragazzo era stato compagno delle giovanili bravate.