Fra
i volti che invece conosceva bene, Marco riconobbe quelli di Faone, Egialo ed
Epafrodito: tutti affidabili, competenti ed efficienti Amministratori Pubblici.
Accanto
ad Epafrodito scorse una donna dalla giunonica bellezza. Stava appoggiata ad una balaustra, ammantata di
seta trasparente che nulla lasciava all’immaginazione. La bocca sensuale era
ingrandita e accesa dal rosso del minio e gli occhi erano truccati col nero
dell’antimonio e allungati verso le tempie. Era letteralmente coperta di
gioielli. In testa portava una parrucca di capelli veri. Biondi. Tagliati,
forse, a qualche schiava germanica.
Composti in treccine raccolte a crocchia, erano trattenuti sulla nuca; una
ghirlanda di foglioline d’oro faceva risaltare i riccioli sapientemente
disposti sulla fronte.
Anche
alcuni di quei gioielli erano stati sicuramente predati a qualche regina
lontana. Erano preziosi e di squisita fattura. Soprattutto il collier, lungo
ben oltre i due metri e mezzo, che le avvolgeva collo, busto e vita. Altre
collane le appesantivano braccia e caviglie: maglie d’oro che la facevano
assomigliare a un idolo luccicante che mandava bagliori al più piccolo
movimento. Un idolo annoiato, a giudicare dalla piega delle labbra e dallo
sguardo assente e svagato.
Quella
donna era Statilia Messalina, ultima moglie di Cesare, e più di ogni altra,
incarnava il concetto di emancipazione della donna romana. Di nobile famiglia,
era cresciuta a corte. Bella e spregiudicata, era subito entrata a far parte
della cerchia ristretta ed intima di Nerone, di cui era diventata l’amante fin
dai tempi in cui questi brigava per disfarsi della moglie, l’infelice Ottavia.
Non
era stata la travolgente passione che lo
aveva legato alla bella Poppea, ma, alla morte di questa, aveva finito per sposarla.
Quasi
nell’ombra, Marco vide un’altra delle donne che tanto avevano contato nella
vita di Nerone: la liberta Atte, che lui conosceva assai bene e che era stata
il grande amore di Cesare prima della comparsa di Poppea.
Nerone
n’era stato così innamorato che c’era mancato poco la impalmasse ed elevasse al
rango di imperatrice. Finita la passione, però, non l’aveva “gettata via” come
aveva fatto con le altre donne, ma tenuta a corte.
Neppure
Poppea era riuscita ad allontanarla.
Atte
era sempre lì: ombra discreta ma onnipresente.
Era
bella come la ricordava, pensò il giovane: la figura slanciata e aggraziata, il
volto bello e sensuale e il portamento quasi regale. Sulla stola verde
smeraldo, raccolta in vita da una cintura dorata, portava una mantella dello
stesso colore che le copriva il capo e parte del volto, ma le esaltava lo
sguardo: due occhi di un nero africano ancora intenso e fiammeggiante, lo
stesso che aveva ammaliato e soggiogato Cesare.
Lo
stesso che, forse, ancora continuava a soggiogarlo.
Scorrendo
lo sguardo dall’una all’altra, appariva evidente l’abisso sociale delle due
donne: se Messalina rappresentava l’emancipazione femminile più di fatto che di
diritto, poiché sul codice restava sempre sotto tutela maschile, nella sua
condizione di liberta, Atte, invece, incarnava la vera e sola indipendenza.
Ma
ecco un altro volto distrarlo dalle sue riflessioni: Calvia Crispinilla,
venticinque anni e tre matrimoni alle spalle.
Calvia
era una vecchia conoscenza di Marco quando era ancora ragazzo e lo era dello
stesso Cesare, fin dai tempi delle bravate al Ponte Milvio. Era lì che,
all’epoca, si incontravano i giovani gaudenti della buona società. La “banda”
arrivava tutte le sere attraverso i Giardini di Sallustio, tra il Pincio e il
Quirinale e si aggirava tra banchi e tavole, saccheggiando e rubacchiando.
Quando
a Roma si seppe che a guidare quella banda di teppisti era Cesare in persona,
furono molti i delinquenti che si organizzarono per emularne le prodezze e
spacciarsi per la teppa imperiale.
Erano
i primi anni di regno e Cesare tornava spesso da quelle scorribande notturne
con la faccia tumefatta.
-----brano tratto d LA DECIMA LEGIONE - Marco Valerio il Tribuno
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